Avvenire, 9 giugno 2019
La strana euforia nel ricordare il D-Day
Questi sono i giorni del settantacinquesimo anniversario del D-Day, lo storico sbarco degli alleati in Normandia, svolta definitiva della Seconda guerra mondiale e della liberazione d’Europa. Nelle tv è un’orgia di servizi, filmati, documentari. Evidentemente il pubblico li ama, perché sono la più colossale applicazione dell’«Arrivano i nostri». Eppure non riesco a unirmi a questa gioia, a questa euforia. Vedo le trasmissioni sul D-Day (perché le vedo, m’interessano molto) con un atteggiamento misto di speranza (gli occupanti sono scardinati dalle loro posizioni, vengono ributtati indietro e inseguiti, è il trionfo della nostra libertà) e di costernazione: è una tecnica d’assalto che costa cara, i «nostri» muoiono a migliaia, è una carneficina, prevista e accettata e messa nel conto. Pare quasi che il Comando supremo degli Alleati, quando s’è riunito per programmare questa maxi-operazione, abbia affrontato questo dialoghetto: ’Com’è messo il nemico?’, ’Astutamente bene’, ’Quante navi dovremo impiegare, per trasportare un esercito in grado di sloggiarlo?’, ’Almeno duemilacinquecento’, ’Bene, e noi partiremo con cinquemila. Quanti uomini ha il nemico, su quello specifico tratto di fronte?’, ’Cinquantamila’, ’Bene, noi arriveremo con centocinquantamila. E quanti uomini perderemo nel primo assalto?’, ’Almeno tot mila soldati’, ’Bene, e noi partiremo con tot moltiplicato dieci’. Così han fatto. Naturalmente hanno vinto. Ma al termine dell’assalto alla spiaggia quei tot mila soldati previsti come vittime giacevano effettivamente sulla sabbia, colpiti al petto. Il fotografo ufficiale delle truppe americane non riusciva più a camminare, muoveva a fatica i piedi sulla sabbia e ripeteva: «Ma quanti morti!». Mi unisco a lui. Non riesco a muovere i piedi, non riesco a distogliere gli occhi, e continuo a pensare: ’Ma quanti morti!’. È un attacco che sarebbe piaciuto a Cadorna. Il risultato – conquistare la posizione – è tutto, il prezzo – quanti uomini perdiamo – va in secondo piano.
Il giorno più lungo non dà l’idea esatta di cosa fu quello sbarco, le parole le grida gli spari le morti sono ’cinematografici’, non hanno realtà, non hanno verità. Realtà e verità hanno quelle stesse scene quando sono girate per Salvate il soldato Ryan. Quando nel 1998 uscì quel film di Steven Spielberg, davanti ai cinema negli Stati Uniti stazionavano le ambulanze, pronte a raccogliere i reduci di quella battaglia che rivedendola nel film si sentivano male. È stata una battaglia pensata nella tattica, uomini armi coordinamento linee di orientamento, ma subìta nella strategia: il nemico aveva scelto da tempo le posizioni e aspettava, ’noi’ non potevamo far altro che accettarle e andargli addosso. Fu un massacro tale che vien da dubitare sui dati forniti ancor oggi dai libri di storia.
I tedeschi avevano dislocato in zona un numero di soldati pari a un terzo degli alleati, ma avevano i vantaggi del territorio, della posizione, dell’attesa. Da parte degli alleati fu un dispiegamento di forze potente, ma una strategia remissiva. È questo che, a veder la battaglia ancor oggi, suscita costernazione. Non ha vinto la strategia militare. Ha vinto la forza dei numeri e la forza della ragione: fu una grande vittoria a un prezzo molto caro.