Il Sole 24 Ore, 9 giugno 2019
Le lettere di Virginia Woolf all’amante Vita Sackville-West
«Che altro al mondo dovrebbe piacermi più delle lettere – lettere giornaliere, lettere lunghe – scritte in cima alla Pink Tower con i cigni che roteano? (…) Piuttosto strappa una penna al cigno e intingila nell’inchiostro verde. Fallo». Così scrive Virginia Woolf a Vita Sackville-West il 27 agosto del 1936. È la descrizione di un rituale consolidato. Virginia oltre a essere una romanziera innovativa è un’epistolografa brillante: ne sono una conferma i sei volumi di lettere indirizzate a familiari e amici, tra i quali spiccano le menti più geniali del tempo, il famoso circolo di Bloomsbury. La poetessa Vita Sackville-West è però la sua corrispondente più intima: amica, amante e musa, una figura a tratti materna. Con lei Virginia si concede di essere “se stessa”, quell’insieme molteplice di personalità che costituiscono l’io più profondo. È una libertà che si respira a ogni pagina, anche nelle lettere più distratte, scritte mentre discute con il marito Leonard, o in quelle più concentrate, composte nel timore di essere interrotta. In alcune prevale la tenerezza, in altre prende forma ironica il risentimento: «Senti, Vita, sbarazzati pure della tua umanità e come la stella del giorno, rinasci cane – ma che almeno il tuo ultimo gesto in sembianze umane sia quello di impacchettare un libro, intitolato V. Sackville-West, Collected Poems, con tanto di dedica a me» (lettera del 22/11/1933).
Più spesso, come nell’incipit del 1936, nel breve giro di poche righe sentiamo modularsi un insieme variegato di umori: dal sospiro all’ingiunzione impaziente, dalla richiesta banale all’inaspettata giravolta del pensiero. Se Vita è distante, nel castello di Sissinghurst, anche i dettagli – i cigni dipinti nella sua torre – possono servire a comunicare il desiderio. Il grande piacere di scrivere lettere viene proprio dalla possibilità di ingrandire ogni inezia, legittimare ogni gesto. Nel romanzo del 1928, Orlando, dedicato proprio a Vita Sackville-West, calandosi nel ruolo della biografa, Virginia riflette sul gusto di «farcire di significato le pieghe grinzose del quotidiano». È un’abilità che condivide con la sua destinataria prediletta, coltivando un genere solo in apparenza caotico e frammentario. In realtà, entrambe sono consapevoli della forza evocativa della loro scrittura privata, e dell’enorme potere che le lettere consentono di esercitare l’una sull’altra. Se Virginia ordina «Descrivimi tutto, fino alla trina delle vestaglie delle donne» (7/1/1933), Vita la incanta con lunghe lettere da Teheran, dal Sahara, o dall’America, luoghi dove la conducono gli impegni diplomatici del marito, Harold Nicolson: «Ho scoperto che posso spedire questa lettera, proprio dalla cima delle montagne» (16/3/1933, Denver).
I viaggi rallentano gli scambi, senza privarli della loro intensità, ognuna ha nella mente il paesaggio dell’altra. Vita, seppur avventurosa, soffre acutamente per la lontananza e descrive all’amica quale miracolo sia per lei ricevere sue notizie: «Non puoi immaginare – tu che raccogli lettere sei volte al giorno (…) non puoi immaginare l’enorme importanza della POSTA qui» (23/2/1927, Teheran). Virginia, nei suoi rari spostamenti, capricciosamente l’adesca: «Ti ho descritto il pomeriggio sull’Acropoli?», per proseguire qualche riga dopo: «No, no te l’ho descritto. (…) Mi vendico così del fatto che non mi pensi» (24/4/1932, Atene). Lo stesso giorno, invece, Vita mette in fuga la nostalgia dedicandosi al celebre giardino (sarà oggetto di un lungo poema, The Garden), e nel frattempo confessa: «Io sono felice per il tuo bene, ma l’Inghilterra è vuota senza di te» (24 aprile del 1932, Sissinghurst).
Per la prima volta, in questo carteggio inedito, curato da Elena Munafò per Donzelli, la storia di una passione amorosa e di un sodalizio letterario viene affidata alla voce di entrambe le protagoniste, grazie alle traduzioni di Nadia Fusini, nota studiosa di Virginia Woolf e autrice del saggio introduttivo, e a quelle di Sara De Simone per la parte di Vita Sackville-West. Le lettere di Vita erano apparse in Inghilterra nel 1984 (e in due edizioni italiane del 1985 e poi del 2002), corredate da alcune brevi risposte di Virginia. Una scelta unilaterale che non dava conto della funzione performativa di un epistolario. Come segnala Elena Munafò, il presente volume seleziona, invece, 138 lettere da un corpus di oltre 500, avvalendosi di recenti scoperte (sono incluse le 4 lettere rimaste fino al 1994 in un cassetto di Vita), in un arco temporale che va dal 16 luglio del 1924, due anni dopo il loro primo incontro, al 22 marzo del 1941, una settimana prima del suicidio di Virginia. Il risultato è un libro accattivante e immaginifico, che si legge come un romanzo, e in cui «le pieghe del quotidiano» possono distendersi e lasciar trasparire quella trama che entrambe le scrittrici aborrivano.
Il fascino del pettegolezzo può far leva sui lettori «detective», ai quali, non a caso, si rivolge per prima Nadia Fusini nella sua introduzione, e ai quali alcune pagine giungeranno più sapide delle moderne soap opera. Penso alle cronache delle visite di Virginia a Charleston, la non distante dimora della sorella Vanessa e del cognato Clive Bell, di fatto una comune per gli artisti di Bloomsbury. O ancora alla capacità di movimentare per iscritto un pomeriggio consumato in chiacchiere e telefonate: noioso, dispersivo, sono i commenti di Virginia che intanto sulla pagina trasforma questi momenti in un vigoroso esercizio di stile.
Eppure, superata quasi subito la curiosità per lo scandalo, il sesso smette di essere l’argomento più interessante. Ci si immerge in questo carteggio e si è invece conquistati dalla profonda intelligenza del cuore e della mente. Si ammira la serietà con cui entrambe le scrittrici affrontano il loro mestiere, difendono le loro abitudini, si scambiano critiche e commenti. Leggendo Passaggio a Teheran, uno dei tanti libri che Vita pubblica con la Hogarth Press, la casa editrice dei Woolf, Virginia registra: «Continuavo a dirmi “come mi piacerebbe conoscere questa donna” e poi pensavo “Ma la conosco” e poi “No, non la conosco – non la donna che scive queste pagine”» (15/11/1926). Altrettanto disarmante è l’effetto di Orlando, proiezione fantastica di Vita che confessa: «Mi sento come un manichino in vetrina su cui tu hai appeso un abito trapunto di pietre preziose» (11/10/1928).
Assuefatti dal chiacchiericcio sterile delle nostre conversazioni, tali scambi potrebbero sembrarci complimenti di circostanza, arguzie per blandire i rispettivi narcisismi. Invece lo stupore che Virginia e Vita esprimono ha la voce della sincerità, e le loro lettere sono il dono prezioso con cui due anime solitarie scoprono la socievolezza e la gioia.