Il Sole 24 Ore, 9 giugno 2019
La corsa al debito della Grecia
L’Italia si conferma l’unico Paese dell’area Euro a non beneficiare del calo dei rendimenti sulle obbligazioni governative. Se guardiamo sulla scadenza dei 10 anni, i risultati dall’inizio dell’anno sono impressionanti: -40 punti base per il Bund tedesco, ampiamente in territorio negativo, -55 per l’Oat francese, -80 per il Bonos spagnolo ed addirittura -150 pb per i titoli greci.
Per i BTp appena 20 punti base. Il ribilanciamento della liquidità verso l’obbligazionario sovereign è certo un fenomeno innescato dalle minacce di recessione; anche i Treasury statunitensi messo a segno un -70 punti dall’inizio dell’anno.
Tuttavia il debito greco merita attenzione, anche considerando il default del 2012, le rimodulazioni delle scadenze e il rapporto Debito/Pil ai massimi (181,9%). Su un debito di circa 400 miliardi di euro, soltanto 71 miliardi (pari al 18%) sono effettivamente negoziabili sul mercato secondario, dato che il resto è congelato nel bilancio del Fondo Salva-Stati Esm. Di questi, 40 miliardi sono immobilizzati nei bilanci di banche, assicurazioni e fondi pensione greci; restano circa 30 miliardi per la negoziazione. Quando il mercato è così sottile, bastano poche mosse di importanti players per muovere significativamente i prezzi.
Dopo anni di immobilismo dagli investitori uno stimolo significativo alla discesa dei rendimenti è arrivato dal mercato interno: a gennaio 2019 le banche greche hanno aumentato i titoli di Stato in portafoglio del 30% con un rastrellamento di circa 5 miliardi.
A fronte di un flottante di soli 30 miliardi, si tratta di un’operazione in grado di dare una forte spinta ai prezzi.
Dal lato della domanda estera, fondi di investimento Usa e francesi sono entrati sul mercato aumentando l’esposizione fino a un +300%. Anche le banche europee (principalmente francesi ed italiane) hanno invertito un trend decennale di riduzione del rischio Grecia.
Il quadro finanziario pare giustificare questo rinnovato interesse sul debito greco. La Grecia non è su un sentiero stabile di crescita ed è riapparso il deficit delle partite correnti non appena le importazioni hanno rialzato la testa.
Tuttavia contro le aspettative iniziali, il governo è stato in grado di ottenere un surplus primario di bilancio negli ultimi 2 anni del 3,9% nel 2017 e del 4,4% nel 2018, ampiamente superiori al 3,5% concordato con la Troika. Le stime più recenti vedono un surplus di bilancio stabile al +1% fino al 2022. La probabile vittoria di un governo pro-austerity alle elezioni di fine giugno rende le previsioni affidabili.
Una crescente fiducia degli investitori esteri in una situazione fiscale stabile nei prossimi anni emerge inoltre dalla lettura degli spread sui derivati di credito (i credit default swaps), il premio pagato per assicurarsi dal rischio di default della Grecia. Nonostante volumi sottili, si può apprezzare la discesa del costo di assicurazione per oltre il 70% dai livelli del 2016, a indicare maggiore confidenza nella tenuta degli equilibri fiscali.
Tale premio di circa 300 punti base (pb) per un sesto (circa 50 pb) valorizza quello che potremmo chiamare il rischio generico di essere un Paese periferico al pari della Spagna, per altri due terzi (circa 200 pb) un rischio specifico connesso alla debolezza economica della Grecia e per il sesto restante il rischio di uscita dalla moneta unica (Eurexit). A titolo comparativo, i circa 250 pb dell’Italia per il 20% sono rischio generico, mentre l’80% è più o meno equamente ripartito tra rischio specifico e Eurexit.
In definitiva, il rally del debito greco non implica miracoli economici ma ha un razionale finanziario solido. Un rischio di cambio limitato, rendimenti elevati ed un nuovo governo conservatore sul piano fiscale sono una garanzia per il capitale speculativo orfano dei mercati emergenti.