Il Sole 24 Ore, 9 giugno 2019
A tu per tu con Dante Oscar Benini
«L’essere umano? Lo metto al centro del mio lavoro e dei miei impegni». Una filosofia a tutto campo che parte dai progetti per i clienti privati fino alla scelta di mettersi in gioco anche nel sociale. Parte da qui la lunga chiacchierata con l’architetto Dante O. Benini, che ci accoglie nel suo studio e subito racconta con entusiasmo l’incontro con Andrea Bocelli a Lajatico (Pisa). «Bocelli partecipa con la sua Fondazione alla realizzazione di un progetto che mi sta molto a cuore, dedicato a ragazzi da reinserire nella società – spiega con passione -. Il mio lavoro (senza cachet, ndr) punta a disegnare il complesso Cittadella Cielo di Frosinone per l’associazione Nuovi Orizzonti, un edificio che ospiterà 1.700 ragazzi salvati dalla strada e avviati a una nuova vita, che qui potranno stare insieme, studiare e imparare un lavoro». Per Benini una missione e il consolidamento della profonda fede religiosa. «In ogni mio progetto è l’essere umano che conta, perché il mio obiettivo è che possa trovare una qualità di vita o di lavoro in un edificio che ho progettato».
Un fil rouge comune alle innumerevoli opere, dagli edifici-icona in Italia ai complessi residenziali su larga scala fino ai numerosi headquarter di società internazionali – da Vodafone a Torno e all’ex Sieroterapico -, tutti fotografati nei libri e monografie che fanno mostra di sé in una mensola nella sala riunioni del suo studio, vicino a qualche plastico di progetti in itinere, al decimo piano di un palazzo che domina Milano dall’imbocco dell’autostrada per i laghi.
Il volume preferito di Benini è quello curato dall’amico fraterno Massimo Vignelli, il grande designer italiano, newyorkese di adozione, che ha fatto la storia di marchi come Ford, Knoll e Ducati. «L’armonia è tutto» commenta mostrandone le pagine.
È passato del tempo dal nostro ultimo incontro, ma Dante Benini non è cambiato, resta una persona di rara empatia, che continua a mettere se stesso in ogni iniziativa che segue. L’energia è la stessa che spende da quando, ancora ragazzino, ha approcciato il mondo dell’architettura. Viaggiando e lavorando in giro per il mondo. Un’energia che si riversa nel disegnare edifici che diventano presto “icone”, nel divertirsi a ideare una barca – «Seven», un sailing yacht di 60 metri di lunghezza di proprietà di Ennio Doris, subito definito il più bello del mondo – o nell’impegnarsi in progetti di beneficienza.
È facile andare indietro nel tempo e immaginarlo bambino con i calzoni corti, come racconta lui stesso, giocare nel cortile della casa della nonna a Venezia, cortile dove si affacciava anche l’abitazione del celebre architetto Carlo Scarpa, suo primo e amato maestro. Da allora, all’età di nove o dieci anni, inizia un rapporto unico, affettivo prima e formativo poi.
«Per me, che vivevo dalla nonna perché orfano di uno dei miei genitori, Carlo Scarpa è stato il maestro da cui ho imparato a studiare e lavorare. Non solo. È stata la persona di riferimento che per anni ha guidato le mie scelte – racconta -. Ancora oggi seguo i suoi consigli, soprattutto quello di leggere ogni giorno tante pagine di libri e giornali» dice. Ricorda Scarpa che gli dice: «Se devi stare sempre qui intorno inizia almeno a disegnare».
Dante Benini è oggi uno dei più famosi architetti nel mondo. Lunga è stata la strada da quando è partito per il Brasile. «All’università stavo vivendo un momento di empasse – dice -. Erano gli anni del Sessantotto, il Politecnico di Milano era spesso occupato, in agitazione, e io già allora ero vestito sempre in giacca, in maniera formale, lontano dall’uniforme dei sessantottini. Scelgo quindi di andare all’estero, a disegnare grandi complessi industriali in Brasile». E da allora inizia a viaggiare. E non si è mai fermato. Si laurea in Brasile nel 1979 presso l’Università Federale con Oscar Niemeyer, lavorerà poi con Frank O. Gehry, Richard Meier, Daniel Libeskind. Ma resta un outsider. Mi mostra una foto sul cellulare, nell’immagine emblematica che lo ritrae con Philip Starck il celebre designer indica Benini come per dire “quello famoso (e bravo) è lui”.
È eclettico in ogni sua scelta, mai imbrigliato in una definizione univoca, trascinato dall’ispirazione. Una voce fuori dal coro, anche in passato, quando puntava a costruire in altezza in una visione moderna e internazionale delle città, mentre alcuni suoi colleghi restavano ancorati alla tradizione. La sua visione è quella che oggi si respira e si vede a Milano con le ultime realizzazioni su larga scala, da Porta Nuova a Citylife, e che continueremo a vedere nei nuovi progetti in arrivo. «L’architettura deve essere sogno, dare emozioni, strappare un sorriso – spiega -. Come quando Renzo Piano traccia segni iconici, è straordinario, difficilmente superabile». Ma ai giorni nostri, fa intuire, ci sono tanti manovali di questo lavoro. «Fare architettura significa lasciare un segno nel tempo, il resto è soltanto mediocre edilizia – sottolinea con forza -, guidata puramente da fini commerciali. Oggi va di moda unire palazzi e giardini in un mix che non mi convince, come il Bosco Verticale».
Su una mensola all’entrata dello studio campeggia un Tapiro d’oro di Striscia la Notizia. «Mi ritrovai Staffelli in studio, qui vedi non ci sono porte, si entra direttamente dall’ascensore. Mi hanno dato il Tapiro perché per fare il ponte dell’Expo, nonostante avessi più punti del secondo classificato, ho perso. Hanno affidato il progetto ad altri togliendo punti al paesaggista, anzi dandogli zero punti come se non avesse lavorato, quando già ero in auto per andare a ricevere l’incarico».
L’animo è dunque nomade, ma è a Milano che ha scelto di vivere. Una Milano che reputa una metropoli fatta solo per lavorarci, «si finisce per accettarla, ma qui si sta e non si vive – specifica – per necessità. Milano è come una grande fabbrica di cui nessuno conosce il proprietario». Si rifà viaggiando. Viaggio che non è mai vacanza, sempre lavoro. «L’anno scorso ho trascorso 700 ore tra aerei e aeroporti» sottolinea. Milano è la città delle tre D, disciplina (che a Benini arriva dal karate di cui è stato campione europeo), ma anche dovere e discrezione. «Guardo tutto con gli occhi spalancati e curiosi di un bambino di otto anni – continua -, ma quello che amo è la conoscenza dell’animo umano». L’affetto che gli è venuto a mancare da bambino lo riversa sugli altri, a partire dai suoi quattro figli, che segue come una mamma chioccia.
Famiglia e lavoro sono le sue passioni.
Le sue opere hanno dato spesso alla città l’impronta per il rilancio di interi quartieri. I palazzi che portano il suo tratto inconfondibile sono diventati presto iconici. È il caso della sede che fu di Torno in via Valtellina nel capoluogo lombardo, ideata circa 18 anni fa ma tuttora attualissima, che non solo è diventato un edificio tra i più studiati e fotografati in Italia, ma che ha permesso la riqualificazione di un’intera zona considerata un tempo un’oscura periferia di Milano e oggi rilanciata grazie all’apertura di locali, ad uffici di ultima generazione e gallerie d’arte. Un’area che aspetta il prossimo step grazie al progetto di riqualificazione dell’ex Scalo Farini, dove peraltro arriverà proprio l’Accademia di Brera.
Tra i lavori più noti gli interni del Vodafone Village, progettato dagli architetti Rolando Gantes e Roberto Morisi, l’ex-edificio Olivetti ICO Centrale a Ivrea, per il quale nel 2009 ha vinto la medaglia d’oro all’architettura italiana, l’ex Sieroterapico di Milano, la riqualificazione di Palazzo Mezzanotte in Piazza Affari, l’headquarter della Bracco. Uno degli ultimi in ordine di tempo è la realizzazione degli uffici di Altiqa a Montecarlo, appena ultimati.
Ma a Benini piace anche fare case. A misura d’uomo. «Mi sono arrivate molte lettere dai residenti delle cinque torri residenziali realizzate alla periferia di Mosca, lettere in cui mi ringraziavano per aver disegnato belle abitazioni che hanno potuto acquistare a una cifra di poco superiore a 2mila dollari al metro quadrato – spiega -. Nel nostro lavoro possiamo dare dignità all’essere umano. Come diceva Winston Churchill: «We shape our buildings; thereafter they shape us (Noi diamo la forma ai nostri edifici, dopodichè essi danno forma a noi). E non bisogna mai dimenticare di valutare quello che si è avuto dalla vita e restituirlo agli altri. Per strappare un sorriso».
Il tema della sostenibilità – il grande trend del momento – lo vede vigile e attivo, ma con i piedi per terra. Inutile farne una mossa di marketing, gli altri se ne accorgono. Ma qualche suo collega, di cui preferisce non fare il nome, continua ad approfittare della moda del “green”.
«Se non consumo e non inquino con un nuovo edificio è già un successo – dice -. Una frontiera importante da raggiungere sarebbe non tanto demolire, ma piuttosto arrivare a smontare gli edifici senza inquinare riempiendo le discariche, recuperando tutto il materiale possibile».
Come immagina le città del futuro? «Sempre più svettanti verso l’alto – dice -. I giardinetti verdi sono auspicabili ma irrilevanti, meglio un grande parco più lontano e una città che cresce in altezza». Un sogno? Forse le amministrazioni locali del consiglio faranno tesoro. D’altronde Benini è abituato ad anticipare le tendenze.