La Lettura, 9 giugno 2019
Intervista a Stefano Bollani
Musicista, d’accordo, straordinario virtuoso del pianoforte, istrione, un po’ saltimbanco. Ma a parlarci insieme, con Stefano Bollani, ciò che non ti aspetti è la vena filosofica, piena di riferimenti, con quel misto di incanto bambinesco e lucido disincanto. «Nessuno in famiglia faceva musica, il primo – racconta – sono io e la seconda è mia sorella che canta e recita. Mio padre amava la musica leggera della sua epoca, sono cresciuto con i vinili di Little Richard e Jerry Lee Lewis, i primi pianisti che ho sentito sono quelli di rock ’n roll, i meno ortodossi. Il preferito era Fats Domino».
Niente musica leggera italiana in casa?
«No, sono stato io, dopo, a innamorarmene, difatti i primi dischi che ho comperato, quando avevo 8 o 9 anni e già suonavo il piano, erano quelli di Nilla Pizzi, Celentano, il meglio di Tony Renis, Nicola Di Bari…».
Finché non è apparso Renato Carosone...
«Gli ho scritto una lettera quando avevo 12 anni, mandandogli una cassetta di 90 minuti in cui rifacevo le sue canzoni con questa vocina “Che bella pansé che tieni, che bella pansé che hai…” (canticchia), e lui mi ha risposto consigliandomi di studiare il blues perché è alla base di tutto. Così, sono andato a cercare i dischi».
Deve tutto a lui?
«Forse avrei trovato la via anche da solo ma è lui che mi ha scritto testualmente: vatti a cercare il blues. A un certo punto un amico mi ha dato pure il suo numero di telefono, ma sai…, l’imbarazzo… insomma, ci voleva un po’ più di faccia tosta e non l’ho chiamato. Pochi anni dopo mi hanno dato il premio Carosone e ho conosciuto la famiglia ma lui non c’era più».
Adesso la faccia tosta ci sarebbe?
«Sì, da allora se leggo un romanzo o ascolto un disco che mi piace cerco di conoscere l’autore. Ho scritto e ho mandato i miei dischi a Tom Robbins, che per me è lo scrittore più divertente del secolo: purtroppo non viaggia più, sta a Seattle… C’è un regista danese, Anders Thomas Jensen, che amo molto, ero in Danimarca, ho trovato il modo e mi sono presentato per dirgli: io sono un tuo ammiratore. Punto. Poi questo non vuol dire che facciamo delle cose insieme… Forse viene dal trauma iniziale di non aver chiamato Carosone».
Che cosa la attrae in un maestro come Enrico Rava?
«È da 25 anni che suoniamo insieme, con Enrico, e sin dalla prima volta, o forse dalla seconda, ho sentito quel che credo di cercare negli artisti: la sensazione della loro presenza, quella che banalmente si chiama saggezza. La loro storia e il loro presente hanno un peso. Quando Enrico apre bocca ho l’impressione che mi stia dicendo in quel momento esattamente la cosa in cui crede, anche solo: “Come va?”».
L’aspetto istrionico fa parte del divertimento?
«Prima ancora di suonare, io volevo stare sul palco, fare il cantante, l’attore, il presentatore tv, volevo essere Celentano, che era l’esempio di uno che faceva tutto, film, tv, canzone… Il pianoforte mi è stato proposto, ma poteva essere la fisarmonica o la chitarra, purché mi lasciasse libera la bocca per cantare. Da bambino però facevo le imitazioni: di Mike Bongiorno, di Stanlio e Ollio, dei maestri, facevo spettacolini per i miei compagni».
Apprezzato?
«Tranne che dalla maestra, sì».
Con la scuola che rapporto ha avuto?
«La prof diceva di leggere Il fu Mattia Pascal per l’estate. Poi tornava e chiedeva: Bollani, hai letto Pirandello? E io dicevo no, però ho letto Kerouac, Bukowski e Stephen King. E lei si innervosiva».
Poi ha cominciato a suonare nei locali?
«A 15 anni a Firenze suonavo in due o tre gruppi, avrei pagato invece venivo pagato anche 40 mila lire, facevo le due di notte anche tre volte la settimana, e il giorno dopo andavo a scuola».
Poveri genitori…
«Non si preoccupavano. I compagni, che erano già grandi, venivano a prendermi a casa e a riportarmi: erano rassicuranti con i miei, dicevano: “Che bravo ragazzo”, e avevano modi urbani. Salvavano le apparenze…».
E il giorno dopo?
«Suonare la notte mi permetteva di sopportare la scuola… Pensa stare a casa da solo a studiare un signore morto duecento anni fa che ti guarda dall’alto e se sbagli una nota ti bacchetta…».
La severità dei monumenti...
«Se Mozart o Beethoven, ma anche Charlie Parker o Jimi Hendrix diventano monumenti, non si spostano più, non cambiano più e al massimo ci vanno sopra i piccioni. I musicisti poi sono tutti busti senza braccia e senza gambe, tutti disabili. La realtà è diversa. Mozart a Mantova, dopo aver ballato con la duchessa, le scrive: se voi chiavate come ballate, povero duca!» (ride).
Il conservatorio com’era?
«Al di fuori di quelle mura c’era tanta musica meravigliosa che mi attirava, lì dentro mi sembrava che si occupassero di una fetta minuscola di musica e in maniera un po’ ossessiva, tipo: fuori di qui nessuno ci capisce. Inevitabile pensare che ogni gruppo esclusivo prima o poi scompare…».
Il meglio è nella contaminazione?
«Contaminazione sa di malattia, preferirei dire farsi compenetrare da altri: o ti lasci compenetrare oppure prima o poi muori. A proposito di “conservatorio”, già il nome ti dice che se vuoi entrare devi impegnarti a conservare una tradizione, invece la tradizione va rinnovata, tenuta viva, non va conservata nel vasetto sotto vetro».
La tradizione italiana che cos’ha ancora di vitale?
«Credo che gli italiani abbiano ancora una patente di allegria e di solarità che noi non ci riconosciamo più. Anche una patente di eccentricità, di anarchia e di eresia che viene da Leonardo, Galileo, Giordano Bruno, e che continua in Benigni».
Il compositore classico che ama di più?
«Va a momenti, oggi è Ravel. La risposta vera però è il primo Novecento, dove sono in tanti: Satie, Stravinskij, Prokof’ev, Debussy, Gershwin… Sono gli anni in cui è nato il jazz. Da ragazzo ero innamorato del surrealismo ma a scuola non ne parlavano… Breton, Picasso, Buñuel, Dalì, tutto il mondo immaginifico che ha portato a Queneau, Perec e in Italia a Luigi Serafini».
Conta di più il talento o la fatica?
«Io amo molto il concetto di ispirazione, è la cosa più spirituale dell’arte: il pensiero che un’idea mi stia arrivando da un qualche punto fuori di me o dentro di me, in ogni caso da un canale aperto, lo stesso con cui la gente prega, una fonte misteriosa, chiamiamola spirito, Dio, oppure il centro di me stesso, l’inconscio collettivo, il campo morfogenetico…».
E il lavoro dove lo mettiamo?
«Il lavoro viene dopo l’intuizione… L’errore della scuola è dire a un ragazzo che bisogna farsi un mazzo così perché la vita lo esige. Ti insegnano prima a scrivere la musica e poi a suonarla. Raccapricciante… Equivale a dire: prima impari a scrivere “mamma”, poi te la farò conoscere e se ti va potrai amarla…».
Come funziona l’improvvisazione?
«C’è un tema e c’è una grammatica e con quelli imposti dei discorsi: un accordo è il corrispettivo di una parola, diciamo, e mettendo insieme una serie di “parole” costruisci frasi diverse con una logica tua. Sembra difficilissimo ma in realtà è come parlare una lingua straniera, vai avanti con quel che sai senza un’idea preconfezionata. Dicevano che Thelonious Monk non sapesse suonare il piano, però costruiva dei discorsi mirabili».
L’errore è creativo?
«Musicalmente sempre, il che mi porta a dedurre che anche nella vita è così. Mi permetto di dire che quel che accade con il linguaggio della musica accade anche nel linguaggio parlato. O, se si preferisce, la nostra vita è una grande metafora musicale, con inizio e fine, alcune vite sono canzonette brevi di tre minuti, altre sono sinfonie lunghissime…».
La musica imita la vita?
«Non è dimostrabile, come non è dimostrabile che nasca il cervello umano prima del suono, cioè di una vibrazione… Potrei dire che il suono è la materia su cui si fonda il mondo e che il resto è metafora. Difatti la musica commuove tutti perché salta la mente. Se non sono cose di Sciarrino o di Stockhausen, la maggior parte della musica parla direttamente alle gambe, al cuore, allo stomaco e salta la mente…».
Ma tanta pessima musica parla allo stomaco…
«Da che mondo è mondo la musica che ascoltano i genitori ai figli non piace e viceversa. Mi si dica che la trap è orribile, ma per mio nonno erano orribili anche i Beatles. Dunque, come la mettiamo? È un caso di democrazia estrema in cui mi vien da dire: lasciamoli fare».
Ottimista?
«C’è in giro un’aria da catastrofe. Pensare che delle formichine come noi riescano a uccidere questo meccanismo pazzesco in cui nasce un fiore geometricamente perfetto è un’idea da egocentrici patologici».
Per un lettore di fantascienza come lei gli scenari apocalittici dovrebbero essere il massimo…
«Amo Philip Dick e Arthur Clark. Ma i mondi immaginari sono infiniti e per fortuna ci sono anche altre cose. Guida galattica per autostoppisti di Douglas Adams è un capolavoro di fantascienza molto divertente, vivaddio, un futuro diverso…».
I pessimisti sono i più lungimiranti: da Dante a Leopardi a Beckett…
«Sì, però è sbagliato pensare che l’arte debba riflettere solo l’orrore della società. È per questo che la trap non mi piace: da un ventenne mi aspetterei una sferzata di ottimismo… e invece per avere qualcosa di positivo devo leggere Jodorowsky che ha 90 anni».
Se suo figlio o sua figlia fossero rapiti dalla trap?
«Non è nell’aria. Frida a 14 anni suona e canta, Leone no, ha 19 anni e studia all’artistico. Forse lui potrebbe diventare trap, per assurdo» (ride).
Che padre è Bollani?
«Sto a vedere la pianta che cresce, curioso di sapere in che direzione si evolve. Da bambino, se qualcuno mi metteva seduto per dirmi: “Adesso ti insegno…”, io nella mia testa ci avevo: “Lallaralallalallà… questo vecchio trombone…”» (canticchia).
Questo presente non le fa nascere qualche timore?
«No, se i giovani che si sono presi a pugni e a calci in Spagna diventano una notizia, possiamo stare tranquilli. Mai dimenticare che i giornali sono fatti di eccezioni. È nato un bambino con tre teste? Sì, d’accordo, ma tutti gli altri ne hanno una».
Quanto c’è di europeo nel jazz americano?
«Il jazz europeo una volta era più intellettuale, quello americano era più de panza perché veniva dalla strada… Oggi un musicista giapponese suona con gli americani e con gli europei, non esiste più che un nero suoni meglio di un giapponese. Così, il finlandese può suonare il tango o il mandolino napoletano e se prima i cinesi si vergognavano a suonare Beethoven, dopo Lang Lang sanno di essere accettati».
La prima volta con Chailly?
«È stato lui a dirmi: facciamo insieme Gershwin a Lipsia… All’inizio cercavo le coordinate… Ero un pesce fuor d’acqua, timoroso, inadeguato… È una cosa che non mi capita spesso. A Lipsia con l’orchestra… mi sentivo giudicato: questo ragazzotto, vestito così, che improvvisa…, questo che si mette i jeans e fa il bis con il tico tico, e che parla al pubblico… Non era una questione musicale ma di ambiente».
Ha superato l’imbarazzo?
«Quasi subito. Una volta mi sono messo uno smoking, ma poi ho detto: “Riccardo, guarda, io non ce la faccio proprio…”. E lui giustamente mi fa: “Ma suona come cazzo vuoi…”. In effetti, quando cominci a suonare insieme si supera tutto».