Corriere della Sera, 9 giugno 2019
Ritratto di Toronto
I sanguigni «guerrieri» californiani che da anni dominano il basket dalla vetta dell’Nba battuti dalla pallida Toronto, metropoli di un Canada alla perenne ricerca di se stesso? I Golden Warriors, il magico team di Stephen Curry che ha fatto innamorare tutti a San Francisco e in mezza America, costretto a cedere lo scettro ai Raptors, i rapaci di una gelida città del Grande Nord (unica non statunitense nella Lega) che fino a qualche anno fa esisteva, nello sport, solo per l’hockey su ghiaccio?
È assai probabile, dopo la sconfitta subita l’altra notte in casa dai guerrieri di Oakland: ora ai Raptors basta una vittoria in casa per salire sul tetto del mondo. E allora l’America è costretta a guardare con lenti diverse Toronto che, fino a qualche tempo fa, le sembrava un’incomprensibile città di Biancaneve, troppo cresciuta, eppure con un tasso di criminalità bassissimo: la metropoli più sicura del Continente americano, quarta al mondo, nonostante i 5 milioni di abitanti e un incredibile mix etnico che ne ha fatto la metropoli più multiculturale del Pianeta con le sue 230 etnie, le lingue e i dialetti parlati (180) e il 51 per cento di residenti nati fuori dal Canada.
In realtà il sospetto che i canadesi non siano solo un popolo di miti ex coloni inglesi senza identità sparpagliati in un territorio immenso, gli americani lo hanno da tempo.
La scrittrice
Per Margaret Atwood il principale carattere del Paese è la battaglia per sopravvivere
Margaret Atwood, la scrittrice canadese di maggior successo, ha raccontato storie femministe e battaglie per il riscatto delle donne come quelle del romanzo Il racconto dell’ancella, ma ha anche tratteggiato in un saggio, Survival, quello che, secondo lei, è il principale carattere della letteratura e dell’anima di questo immenso Paese: la battaglia per sopravvivere. Sopravvivere all’egemonia politica, economica e culturale del potente vicino, gli Usa; e sopravvivere alla natura splendida e feroce del Grande Nord. Ma in tempi più recenti un leader politico giovane e dinamico come Justin Trudeau ha dato al Paese un’immagine molto più cool. E, anche se alla fine il Canada si è dovuto piegare ai diktat commerciali di Donald Trump, negli Stati Uniti è ormai diffusa, almeno tra moderati e progressisti, la convinzione che quella canadese sia una società con meno diseguaglianze, meno tensioni sociali, meno violenza e una sanità migliore di quella degli Stati Uniti.
Toronto è la città simbolo di tutto questo: melting pot di razze anche più di New York, è diventata la capitale del multiculturalismo nonostante la sua crescita tumultuosa. Terra d’emigrazione soprattutto di operai irlandesi, quella che era chiamata la «Belfast d’America» dopo la Seconda guerra mondiale ha accolto le ondate migratorie degli ebrei dell’Est europeo, degli italiani, dei portoghesi e poi anche delle etnie asiatiche, passando rapidamente da uno a cinque milioni di abitanti.
Convivenza
Nella città ci sono 230 nazionalità, gli amministratori hanno sempre difeso la diversità
Qui, grazie anche ad amministratori che hanno difeso il multiculturalismo (celebrato nei Caravan, una serie di feste popolari), le battaglie tra gruppi etnici non hanno mai davvero attecchito. Toronto non è il paradiso: anche da queste parti il crimine ha cominciato a diffondersi, dalla ‘ndrangheta calabrese ai trafficanti di droga Tamil. E proprio la ridotta sorveglianza della polizia, combinata con leggi anticrimine assai meno severe rispetto agli Usa, sta facendo di Toronto un hub della produzione di droghe sintetiche e di banconote false.
Chi vorrebbe importare il modello multiculturale di Toronto dovrebbe, poi, anche riflettere su certe differenze rispetto all’Europa: la metà degli immigrati che arrivano in Canada sono laureati. E le comunità vivono sì in armonia, ma sono distribuite in un mosaico di villaggi ben separati, anche se interconnessi: Little Italy, Greektown, Portugal Village, Chinatown, la Roncesvalles dei polacchi, Koreatown. Solo Europa e Asia, fino a qualche anno fa. Grazie ai Raptors, e al suo presidente, il filantropo nigeriano-canadese Masai Ujiri che è andato a cercare giocatori anche in Congo e Camerun, ora a Toronto si affermano per la prima volta anche l’orgoglio e la cultura afroamericana.