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 2019  giugno 09 Domenica calendario

La guerra sui minibot è finta

Giovanni Tria non ha mai pensato che la sostanza dei negoziati con Bruxelles fosse in qualche decimale di deficit. Il ministro dell’Economia ha sempre saputo che la posta era, e resta, più alta. A dicembre, quando il governo invertì la rotta di fronte a una reazione molto dura dell’Unione europea sui conti, Tria in privato lo disse apertamente: «Se riusciamo a evitare la procedura, è il segnale che vogliamo restare nell’euro».
Da allora questo economista di 70 anni si è abituato a stare sotto i riflettori, ma non ha cambiato idea: la partita che l’Italia sta giocando in Europa non riguarda solo il numero previsto del disavanzo o del debito; coinvolge la capacità del governo – e la sua volontà – di sradicare i dubbi diffusi nelle altre capitali e nei mercati che l’Italia si tenga un piano di riserva: l’uscita dall’euro, piuttosto che accettare un programma della Troika, se lo stress finanziario minacciasse di precludere al Tesoro l’accesso ai suoi investitori tradizionali.
Dietro il rifiuto di Tria all’idea dei mini-Bot c’è questa preoccupazione. Non che il Paese un giorno decida davvero il salto nel buio, ma che qualcuno oggi cerchi di farlo temere ai partner e ai creditori del Paese. Quasi che minacciare implicitamente la disponibilità alla «euro-exit» fosse davvero un’arma negoziale, ora che l’Italia è a un passo da una procedura europea sui conti. Il ministro, quanto a questo, vede nei debiti commerciali dello Stato quasi un pretesto: la maschera dietro la quale far avanzare i mini-Bot, come ipotetico mezzo di pagamento potenzialmente alternativo o parallelo all’euro.
Che il problema di fondo non siano i debiti dell’amministrazione verso i fornitori, lo segnalano i dati stessi del governo. Oggi quei ritardi non sono più l’emergenza di qualche anno fa. Secondo Farmindustria, i tempi medi di pagamento nella Sanità sono crollati dai 251 giorni del 2012 a 58 alla fine del 2018. Siope, la banca dati della Ragioneria, mostra che a settembre 2018 le Regioni e i grandi Comuni pagavano in media a 36 giorni: prima della gran parte delle imprese.
Non tutto il quadro è così roseo, naturalmente. I grandi ritardi spesso sfuggono alle banche dati, tanto che Pharmafactoring e Banca Sistema – che ricomprano crediti insoluti per poi riscuoterli dallo Stato – riescono in media a farsi saldare a undici mesi. Ma chi conosce la questione sostiene che i mini-Bot, titoli di Stato di taglio minuscolo con cui pagare le aziende, non risolverebbero niente. Luigi Guiso, uno nei maggiori economisti italiani, sospetta che i mini-Bot subirebbero molto presto una svalutazione di fatto. Gianluca Garbi, fondatore di Banca Sistema, sostiene che sono comunque inutili: «Le lentezze sono anche giustificabili, dipendono dai controlli antimafia o anticorruzione – osserva Garbi –. Agli enti mancano i permessi, non sono i fondi».
La liquidità
Già oggi gli enti possono prendere liquidità illimitata in euro a tassi bassissimi da Cassa depositi per saldare i debiti con i fornitori
Proprio questo è l’aspetto più sorprendente della proposta sui mini-Bot per pagare le imprese: soppianterebbe una misura già introdotta da questo governo. I commi 849-857 del bilancio 2019 prevedono che gli enti possano prendere liquidità in euro illimitata a tassi bassissimi da Cassa depositi per saldare i fornitori. Dunque hanno già a disposizione i fondi necessari, purché i crediti siano certificati. I mini-Bot sembrano solo un modo più complesso di affrontare un problema già risolto.
Resta da capire perché l’idea sia stata riesumata dal leghista Claudio Borghi, che da presidente della commissione Bilancio della Camera dovrebbe conoscere la manovra del suo governo. La risposta forse è nei movimenti dei derivati che assicurano (anche) dal rischio che un giorno i titoli di Stato italiani siano rimborsati in nuove lire svalutate. La recente proposta sui mini-Bot è coincisa infatti con l’impennarsi di quel segnale, che misura la percezione diffusa nel mondo delle probabilità che l’Italia un giorno lasci l’euro: l’indicatore è risalito ai livelli di novembre o dicembre scorso, la fase in cui Tria diceva che in gioco c’era l’idea che l’Italia volesse stare nell’euro.
La carriera politica di Borghi del resto è legata dall’inizio al suo ruolo di avvocato dell’“euro-exit” come lo è quella di Alberto Bagnai, anche lui consigliere economico della Lega e presidente della commissione Bilancio in Senato. Senza specificare la sua appartenenza di partito, né le sue idee sull’Italia e l’euro, Bagnai giovedì sera ha proposto sul «Financial Times» lo smantellamento del Patto di stabilità per gestire meglio l’unione monetaria. Quale che ne sia il merito, quell’idea non può che aver alimentato i sospetti verso il Paese a Bruxelles – e il rischio di uno scontro politico – proprio ora che una procedura sul debito sembra vicina.
A Wall Street, la strategia del «too big to fail» è quella di chi si crede così importante da poter moltiplicare le sfide al sistema perché non può essere lasciato cadere. In America ha sempre funzionato, fino al giorno di Lehman Brothers.