la Repubblica, 9 giugno 2019
Carlodavid Mauri: «Da marzo non vedo terra»
Carlodavid Mauri, documentarista e cameraman, è nato a Cagliari.
«Siamo 600 miglia da Thaiti e 4200 dalla costa cilena». La voce arriva limpida come stesse chiamando dal palazzo di fronte. Ma l’abisso di acqua e chilometri che ci separa si apre quando Carlodavid Mauri detta le coordinate della sua posizione: 17 gradi e 25 primi di latitudine sud, 137 gradi e 45 primi di longitudine ovest. Un punto lontano da tutto nel mezzo del Pacifico. «Non vediamo e tocchiamo terra da quando siamo partiti a marzo dal Cile», conferma. «Ma tra pochi giorni dovremmo raggiungere l’isola di Hao, nella Polinesia francese. E faremo un pit stop, la barca ne ha bisogno». Mauri e gli altri sette temerari che viaggiano con lui stanno attraversando l’Oceano su una sorta di reperto archeologico: il Viracocha è un piccolo veliero realizzato in giunco, con le tecniche tradizionali usate dagli indigeni sudamericani. Mauri, 38 anni, documentarista, ha l’avventura scritta nel Dna. Suo nonno Carlo Mauri, alpinista ed esploratore, partecipò negli anni ‘60 e ‘70 alle spedizioni dell’antropologo norvegese Thor Heyerdahl, il cui obiettivo era dimostrare che già nell’antichità erano state possibili grandi traversate oceaniche. E lei come si è ritrovato a bordo del Viracocha? «Sogno l’avventura di mio nonno da quando sono ragazzo e tempo fa, visitando il Museo Kon Tiki di Oslo, dedicato alle imprese di Heyerdahl, sono venuto a sapere che era in preparazione una nuova missione. L’obiettivo era navigare dal Cile all’Australia per 8000 miglia. Ho contattato il capo spedizione, Phil Puck, e mi sono offerto come documentarista». Siete in viaggio da tre mesi in mezzo all’Oceano su un mezzo “preistorico”. Come sta andando? «Siamo a corto di viveri e li abbiamo dovuti razionare. Contavamo sulla pesca, ma nei primi due mesi non si sono visti pesci. Poi finalmente siamo riusciti a procurarci un po’ di cibo dal mare. Una notte mi sono accorto che un banco di pesci si era messo nella nostra scia e ne ho catturati tre. Da quel momento siamo riusciti a procurarci un po’ di cibo». Momenti di paura? «No, anche se ci sono stati diversi incidenti. Il vento non ha mai superato i 25 nodi, però ha rotto l’albero maestro e le vele, si è spaccato il timone, ma siamo riusciti a riparare tutto. Qui il rischio è cadere in mare: non abbiamo motori a bordo e per recuperare un naufrago bisogna avvicinarsi con un canottino a remi. Con il maltempo è un problema». Siete in otto, come va la convivenza? «È difficile. Non ci si può sottrarre ai conflitti, vanno affrontati e risolti subito. L’istante successivo puoi aver bisogno della persona con cui stavi litigando. Siamo tutti di nazionalità diverse». Ci sono anche due donne. «Sì, una francese e una cilena. È la prima volta per un viaggio così». C’è privacy sul Viracocha? «Non direi. C’è una toilette con un telo di yuta che la separa dal resto e quattro letti a castello». Com’è manovrare questa imbarcazione? «Complicato. Io vado in barca a vela da quando avevo sei anni, ma gestire il Viracocha è tutta un’altra cosa. Per una virata ci vuole tutto l’equipaggio e un’ora di lavoro. Il problema è che lo scafo ha bisogno di riparazioni per arrivare in Australia». Cosa è successo? «La prua e la poppa si sono deteriorare troppo presto. Durante le giornate di pioggia la barca ha assorbito acqua e si è appesantita, rallentando. È per questo che siamo in ritardo : saremmo dovuti arrivare a Thaiti in 2 mesi, ce ne metteremo 3». Basterà lo stop sull’isola di Hao? «Non lo so. Anche perché si va incontro all’inverno australe con le tempeste. Potrebbe essere necessario fermarsi a Thaiti». C’è qualcuno che vigila su di voi? «All’inizio la marina militare cilena. In seguito ci ha preso in consegna la marina di Thaiti». Qual è il senso dell’impresa? «Dimostrare che era possibile per le popolazioni andine migrare verso le isole del Pacifico. Realizzare il viaggio più lungo mai fatto su un’imbarcazione di questo tipo. Monitorare la salute dell’Oceano: abbiamo rilasciato in mare delle boe che raccoglieranno dati e li trasmetteranno alla National oceanic and atmospheric administration e abbiamo raccolto campioni di microplastiche. Ma per me c’è anche un significato sentimentale». Quale? «Per preparare la spedizione Thor Heyerdahl e mio nonno visitarono i pescatori del Lago di Cabras, in Sardegna, che all’epoca producevano imbarcazioni intrecciando giunchi. Nonno portò con sé suo figlio che così conobbe mia madre e se ne innamorò. Questo viaggio è anche una riscoperta delle mie radici».