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NEW YORK Dalla sua casa di via Silvio Pellico, a Torino, Emilio Salgari evocava la Malesia, le battaglie tra navi pirata in un mare che non aveva mai visto. Da un cubicolo di due metri quadrati, in una stanza condivisa con altri dieci o trenta scrittori (dipende dagli orari) con il bagno, la macchina del caffè e la stampante in comune, quali mondi di fantasia potranno scaturire?
Camminavo per un quartiere di Brooklyn chiamato Cobble Hill, uno dei tanti che la tenacia del tempo e degli agenti immobiliari ha reso di tendenza, quando, tra un supermercato e una lavanderia, mi è apparsa una vetrina che esponeva libri, ma non era una libreria, piuttosto la sua incubatrice. Una discreta iscrizione sulla porta annunciava: Brooklyn Writers Space. Il disegno di una mano che impugna una penna già rimandava a un tempo trascorso, una letteratura artigianale. Un foglio attaccato al vetro intimava di non suonare, ma di contattare un numero per poter visitare il locale. L’ho fatto. Il giorno seguente, nel pomeriggio, una donna gentile mi attendeva allo stesso indirizzo. Chiedendomi di non parlare finché fossimo stati nella “sala comune”, ha infilato la chiave nella serratura. Lo spazio per gli scrittori era diviso in 32 cubicoli. Uso questa parola anche se nella mia testa il termine che appariva era “loculi”. Ciascuno era protetto da pareti, con una piccola scrivania e un lume votivo sul fianco sinistro. Le sedie erano del tipo da ufficio: schienale imbottito e rotelle, anche se gli spostamenti erano improbabili. Il silenzio era interrotto solo dal ticchettio attutito dei tasti di un computer. La libreria che avevo visto dall’esterno conteneva un centinaio di volumi per i momenti di relax. Un divano di finta pelle consentiva di sedersi o sdraiarsi per leggere o meditare una svolta nella trama che si stava concependo. Sulla stampante c’era una scritta: "Usa la tua carta". Il wi fi invece era libero e gratuito. Finalmente la sala comune, minuscola, ma dotata di tutti i comfort: bollitore e bustine di tè o caffè solubile, zucchero, piccolo frigorifero, telefono per chiamate urbane, accesso al bagno. Al muro era appeso un foglio per la lista d’attesa: l’associazione ha decine di iscritti e può capitare, specialmente al sabato, che ci siano più autori presenti che posti disponibili. Allora si mette il nome su quel foglio e si va ad aspettare in un vicino caffè, dove forse si poteva stare per scrivere già dall’inizio. O no? Pare di no.
Chi sceglie questo ufficio per travet della narrativa non sopporta il rumore, fugge da case troppo affollate, distrazioni continue, bambini che piangono, lavatrici in centrifuga, sottofondi di tv accese. Sostiene Adam Gopnik in Io, lei, Manhattan: «La scrittura è silenzio, a meno che non venga trasformata in discorso dentro un’altra testa». Aggiunge: «Gli scrittori sono soli anche quando sono in compagnia». E tuttavia, nella redazione del New Yorker lo affascinava una porta sempre chiusa, dietro cui qualcuno batteva a macchina producendo un suono energico e pressante: Joseph Mitchell alla ricerca del “segreto di Joe Gould”.
Per i soci dell’ufficio autori di Brooklyn la porta è aperta ogni giorno a qualsiasi ora con l’abbonamento “premium”, per così dire; orari limitati per gli altri: comunque mai meno di duecento dollari al mese. Visti così sembrano la striscia a fumetti di Dilbert o una scena di The Office e non pare possibile che nello spazio tra il cubicolo (loculo) e il soffitto un serial killer stia uccidendo i rabbini dell’East Side o una studentessa ultracattolica concedendosi un triangolo amoroso. Eppure accade. Qui Mandy Berman ha scritto Perennials, giudicato da Vanity Fair America il miglior libro d’esordio dell’estate 2017. Qui Liesl Schwabe, madre di due figli, cerca di concepire il memoir del suo debutto e Leyla Mei, autrice radiofonica, di mettere a frutto le sue conoscenze di medicina in un saggio sulle razze. Viene istintivo, per quanto sia sciocco, guardare sopra le teste degli scrittori e immaginare tutti quei personaggi e quei casi clinici che si incontrano, collidono, sfuggono dal perimetro designato cercando la propria narrazione. Teste chine e schermi luminosi, parole che si formano e comandi che le annullano. Pausa caffè.
Nell’archivio on line Writers at work il giornalista olandese Ernst Pfauth ha raccolto oltre 400 immagini di scrittori all’opera, tutti solitari (tranne Celine e Sartre che condividono la scrivania rispettivamente con un pappagallo e un gatto), il 99% al riparo delle mura del proprio studio, affollato di libri e fotografie. L’impressione è la trasmissione di un cliché forse necessario, certamente riconoscibile e quindi rassicurante. Si discostano Hunter Thompson sulla spiaggia con la birra in una mano e la penna nell’altra e Sylvia Plath su un muretto, esposta al vento, la macchina per scrivere sulle ginocchia, ma anche quelle sembrano conformi, nel loro caso al personaggio: ribellismo e fragilità, perfino nell’esporsi prima di esporre.
Il metodo degli scrittori ha sempre prediletto la routine (la giacca di Georges Simenon sullo schienale della sedia alle 4 del mattino, il leggio di Ernest Hemingway e Philip Roth, le duemila parole quotidiane di Stephen King) e anelato alla sua dissoluzione. Di tutti gli studi il più spettacolare che abbia visto apparteneva a Pablo Neruda, a Isla Negra: una scatola di vetro appartata dalla villa, che inquadrava l’oceano, due navi in bottiglia sul davanzale. Eppure, raccontava il suo autista Manuel: «Quando voleva davvero scrivere si faceva portare fuori, sulla strada, parcheggiavamo di lato, mangiava una melanzana, beveva whiskey e gli veniva la poesia». «Una sregolata precisione» era secondo Mitchell il segreto della buona letteratura. Raccontare storie strane in modo semplice, traduce Gopnik. Forse è quello che fanno all’Ufficio Narratori di Brooklyn. O forse proprio loro sono la storia strana, che qualcuno sta raccontando in modo semplice, seduto nel suo cubicolo (loculo) dalle 9 alle 5.