la Repubblica, 9 giugno 2019
Siria, la morte del portiere-combattente
La guerra in Siria ha preteso la vita anche dell’ultima sua icona, il portiere della squadra di Homs diventato prima numero uno della nazionale giovanile siriana e poi cantore della rivolta contro Damasco. Abdul Baset al Sarut, calciatore prestato alla rivoluzione, è morto in un ospedale turco a 27 anni dopo essere rimasto ferito allo stomaco in combattimento vicino a Tal Maleh, nel nord della regione di Hama, dice l’Osservatorio siriano per i diritti umani. In questa zona le truppe governative stanno conducendo un’offensiva massiccia contro l’ultima roccaforte ribelle, dove almeno trecento persone sono rimaste uccise da aprile e oltre 300 mila sono sfollate.
Al Sarut aveva aderito alle contestazioni pacifiche contro il regime di Damasco nel 2011, combattendo a Homs fino al 2014, quando un accordo di cessate il fuoco aveva permesso ai combattenti ribelli di lasciare la città assediata. Il governo di Damasco lo aveva definito «traditore», arrivando a mettere una taglia sulla sua testa, i suoi amici invece avevano lanciato giochi di parole che facevano leva sulla somiglianza in arabo fra le espressioni “portiere”, e “guardiano della libertà”.
Lui aveva raggiunto le file di Jaysh al Izza, un gruppo vicino all’Esercito libero siriano accusato di collegamenti con Al Qaeda. Ma la sua figura è tutto tranne che quella di un fanatico jihadista. Lui stesso si era preoccupato di negare ogni conversione radicale, e anzi incitava i diversi gruppi a unirsi in nome della Siria.
Chi lo ha conosciuto racconta un personaggio carismatico, non cupo, capace di trasferire entusiasmo e motivare i compagni. Nelle foto è sempre sorridente, nelle immagini del documentario sulla sua vita, “Return to Homs”, firmato da Talal Derki e premiato al Sundance Film Festival, si indovina la sua energia.
Al telefono da Berlino, il regista sembra avere la voce rotta: «Ancora non riesco a credere che non ci sia più. Solo nei giorni scorsi l’ho visto per un momento nelle immagini che mi hanno portato dalla Siria alcuni colleghi. Ma non sembrava più lui. Appariva stanco, sembrava quasi che non gli importasse più di nulla, che fosse quasi deciso a correre rischi». Forse si era compiuto il percorso che già alcune inquadrature di “Return to Homs” anticipavano, con il giovane che guarda sconsolato il suo lanciagranate Rpg, quasi si rendesse conto all’improvviso che la guerra non può che portare morte e devastazione.
Per Derki, la storia di Abdul Baset è quella di una persona normale, senza ansie di leadership, che aveva messo la sua energia al servizio di una causa. «Ma combattere non era la sua scelta. Ha dovuto abbracciare questa causa, come tanti, per sopravvivere». Anche perché suo padre e quattro suoi fratelli erano già caduti lottando contro il governo di Bashar al Assad.
Secondo Jameel al Saleh, comandante del gruppo di miliziani, Al Sarut «è caduto da martire, combattendo nel nome di Dio». Il leader guerrigliero ha pubblicato la notizia in un tweet, aggiungendo un video in cui il giovane canta una canzone dedicata alla sua città: “Homs, ritorneremo”. Ma per Derki, la sua canzone prediletta era meno guerresca, e più malinconica. Diceva: “Ho nostalgia della libertà”.