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 2019  giugno 01 Sabato calendario

Recensione del libro "Un sogno sull’oceano"

L’ultima cena sul Titanic Cuochi e camerieri, guidati dallo chef Luigi Gatti, colarono a picco nella tragedia marittima. Erano tutti italiani. Ora un volume ne racconta la storia. Che è anche quella di un amore di terza classe. Insomma, dimenticate Di Caprio e la Winslet
I sopravvissuti tratti in salvo dal Carpathia ancora tremavano dal freddo, quando una delle più diffuse riviste anglosassoni commissionò a Joseph Conrad una serie di articoli sulla tragedia del Titanic. Lo scrittore sembrò intuire il potenziale melodrammatico che già prendeva forma intorno alla vicenda, per cui – da uomo di mare quale egli era – tuonò contro tutto e tutti, ribattezzò il transatlantico “cisterna sfonda rivestita di tappezzerie” e derubricò la morte di tanti passeggeri da eroico sacrificio a banalissimo incidente, tale e quale a “chi ingerisce il salmone guasto del droghiere”. È passato più di un secolo, ma gli sforzi di Conrad sono rimasti vani: l’affondamento del Titanic è una di quelle sciagure (1500 morti, ricordiamolo) sublimate in una specie di bolla lirico-romantica, per la pacchia dei botteghini cinematografici e dei signori del merchandising. In Cina è perfino prossimo all’apertura, sul fiume Qi-Sichuan, un apposito parco tematico, immaginiamo comprensivo di piscine semigelide in cui sguazzare (per ore, nel buio) a rischio d’ipotermia. Certo, è risaputo che i disastri in alto mare hanno da sempre un loro afflato letterario (naufragò Ulisse, naufragò Enea, e via dicendo dalla Tempesta di Shakespeare in poi), ma non ho visto lo stesso trattamento per le 4400 vittime della Doña Paz divorate dagli squali nel Mar delle Filippine, nè per l’Empress of Ireland, colata a picco a largo del Quebec neanche due anni dopo il Titanic: alle sue 1.012 vittime è toccato, oltre il gelo dell’Atlantico, pure quello dell’oblio, per cui a nessuno verrà mai in mente di dire, con malcelato orgoglio, “ebbi un avo sulla Empress of Ireland.” Viceversa, vuoi mettere lo sballo di annoverare nell’album di famiglia anche solo un mozzo sul Titanic? Magari, direte voi, ma per noi italiani c’è giusto l’Andrea Doria. E invece no: a dischiudervi una speranza contribuisce adesso Un sogno sull’oceano di Luigi Ballerini, cui va il merito di aver riportato (letteralmente) a galla la storia della brigata italiana nelle cucine del Ritz, il ristorante di lusso proprio sul Titanic. Ed è una bella storia, di quelle che ti chiedi come sia possibile che abbia atteso per anni nell’ombra: se si fa eccezione per l’intreccio romanzesco (ahimè c’è fisso in agguato l’acuto di Celine Dion), non c’è niente di inventato in queste pagine incalzanti e tenere, tinteggiate ad acquerello, generose d’ironia e di suspance, connubio che da sempre si addice alla miglior narrativa per ragazzi. Ma a colpirti, su tutto, è davvero – più che la sceneggiatura – il soggetto, cioè la documentata presenza a bordo di quel formidabile team tricolore, la Serie A dei cuochi, dei camerieri, dei mâitre nostrani, capeggiati da chef Luigi Gatti che era un po’ come un Carlo Cracco del 1912. Per il viaggio inaugurale, quelli della White Star Line l’avevano arruolato a tutti i costi, pur di deliziare – con gorgonzola e trofie al pesto – i palati dei nababbi più nababbi del momento, dagli Astor ai Guggenheim. Ed è altrettanto appurato (lo testimoniano i superstiti) che Sua Maestà lo Chef, quando si trattò di mettersi in salvo, preferì con gran nobiltà d’animo restarsene coi suoi connazionali, ai quali nessuno ovviamente si sognò mai di offrire un salvagente, trattandosi non solo di cucinieri ma altresì di plebaglia italiana, con tutto che ne lodavano la pummarola. Dopodiché, l’epilogo è noto: il “Ritz in versione marina” (la definizione è ancora di Conrad) sprofondò negli abissi portandosi dietro centinaia di lavoratori e di poracci per cui non erano contemplate scialuppe, ritenute una pecca estetica. E se si pensa che il quarto libro del Capitale di Marx era stato pubblicato da Kautsky giusto un paio di anni prima, la valenza metaforica del disastro assume una sua pregnanza: come un’Arca di Noè del Novecento, il Titanic portava a spasso sull’oceano l’intero ventaglio delle specie, intese in senso socio-politico. Era una furbissima trovata di propaganda, consolatoria e inclusiva quanto basta, ed era previsto che tutto filasse bello liscio, con tanto di volo di colombe all’approdo americano. Peccato solo che l’Arca di Noè trovò sulla rotta un iceberg, e questo impose delle scelte un pochetto drastiche, assunte dalla classe dirigente con il consueto criterio autoconservativo. Luigi Ballerini colloca su questo sfondo la sua scoppiettante storia d’amore che (per fortuna) non ci propina l’ennesimo idillio proibito fra lo spiantato e l’ereditiera, ma si dipana tutta in vivace chiave proletaria: Italo serve ai tavoli, Alice è una bambinaia per pargoli griffati, la loro liaison scorre via come un film con Cary Grant e Doris Day, con la variante che lui grattugia il pecorino e lei si spupazza il piccolo re Mida. Insomma, è una storia d’amore alla Vasco Pratolini, opportunamente trasferita sui ponti inclinati del Titanic, per cui ti pare ogni momento di dover schivare DiCaprio e la Winslet, con l’aggiunta divertentissima che da un capitolo all’altro temi non tanto la comparsa dell’iceberg, bensì il letale sopravvento di tutti – ma proprio tutti – i satanassi del mainstream, da Masterchef a Riccanza, Downton Abbey e Love Boat. Resteranno invece tutti sullo sfondo, agguerriti ma inoffensivi, come i gabbiani sulla scia del transatlantico, incapaci di far affondare un piccolo libro prezioso in quanto privo di pretese, sul quale, a conti fatti, vale la pena imbarcarsi.