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 2019  giugno 09 Domenica calendario

Intervista all’artista Jean-Michel Othoniel

Jean-Michel Othoniel è un artista francese che mette al centro della sua creazione l’idea della geometria emozionale. Usando mattoni di vetro o le sue caratteristiche perle crea squisite sculture gioiello il cui rapporto con la scala umana spazia dall’intimità alla monumentalità.
Come descriverebbe il suo percorso artistico?
«Sono nato nel 1964 a Saint-Étienne, nel centro della Francia. Mio padre era un ingegnere, mia madre un’insegnante. In città c’era un solo museo di arte contemporanea dove da bambino andavo spesso, forse perché volevo sfuggire alla tristezza della vita in quel periodo. A 7 anni ho deciso che avrei fatto parte di quel mondo».
Era figlio unico?
«Mio fratello maggiore se ne andò quando avevo 9 anni. Ero il più piccolo ed ero piuttosto solo, ma mi piaceva. Frequentavo lezioni d’arte e conferenze al museo, e incontravo degli artisti. Mi godevo la famiglia del mondo dell’arte allora come adesso. Da bambino ero un sognatore».
Com’è il museo di Saint-Étienne?
«È la seconda collezione di arte contemporanea in Francia, dopo il Centre Pompidou. Quando avevo 10 anni ho avuto l’occasione di vedere l’artista americano Robert Morris, che allora ne aveva 30, e Tony Cragg, lo scultore inglese, quando avevo 13 anni. Quando ho finito il liceo sono partito per Parigi e ho frequentato la scuola d’arte di Cergy-Pontoise. Era un nuovo tipo di scuola d’arte, mi ha dato la libertà di passare da un materiale all’altro. Poi ho cominciato a realizzare installazioni poetiche con piccoli oggetti e, mentre ero ancora a scuola, ho avuto la possibilità di mostrarli al Musée d’Art Moderne de la Ville de Paris».
Era un enfant prodige?
«Non saprei, ma mi sentivo parte della buona energia che permeava il mondo dell’arte alla fine degli Anni ’80: c’era molta apertura mentale e si poteva fare ciò che si voleva». 
Come ha cominciato?
«Con installazioni poetiche, giocando con uno strano materiale chiamato zolfo, un elemento giallo. Ho lavorato la polvere di zolfo giallo per circa 10 anni dando agli oggetti titoli poetici».
Sempre a Parigi?
«Viaggiando, anche. Ho vissuto a Berlino nel 1989 quando è caduto il muro, e a Hong Kong quando era ancora inglese. Ero in contatto con un gruppo internazionale e per un po’ sono vissuto a New York. Poi, nel 1992, il mio lavoro è stato esposto a Documenta a Kassel e questo gli ha dato una grande visibilità».
Quando ha iniziato a lavorare con il vetro?
«Ho cominciato a lavorare il vetro a Villa Medici, l’Accademia di Francia a Roma, per due anni. Ho deciso di ricreare il vetro naturale in modo artificiale, lavorando con i soffiatori nel centro di Marsiglia per la ricerca su questo materiale. Quando ero a Villa Medici nel 1996 andai a Murano molte volte per preparare un progetto per la Peggy Guggenheim a Venezia, dove nel 1997 ho allestito una mostra in giardino».
Cosa è successo dopo?
«Ho continuato a lavorare con il vetro volevo collegarlo con la natura. Questo gli conferisce un significato più forte e organico rispetto a quando si trova in una stanza, dove è decorativo. Ho dovuto combattere con questa abitudine mentale».
Le prime opere?
«Ho appeso enormi collane tra gli alberi a New Orleans, e poi nel 2000 ho realizzato l’ingresso della metropolitana in Place Colette, a Parigi, di fronte alla Comédie-Française. In francese si chiama La Bouche de Metro, e questo progetto ha cambiato la mia vita. Ho esplorato i limiti del vetro e ho esposto nei musei, ma amo lo spazio dell’arte pubblica».
Com’è arrivata la svolta?
«Lavorando alla Fondazione Cartier dove ho incontrato il mercante d’arte Emmanuel Perrotin, e l’architetto americano Peter Marino. Entrambi hanno cambiato la mia vita perché per la prima volta ho iniziato a guadagnare davvero. Con Emmanuel poi abbiamo dato vita a molti progetti».
Ad esempio?
«Nel 2015, Louis Benech mi ha invitato a far parte del suo progetto di ricostruzione di un nuovo giardino a Versailles con una fontana, Les Belles Danses. E lì ho capito che non c’è frattura nella storia dell’arte, solo una continuazione. Io faccio calligrafia moderna con il vetro e l’ispirazione viene dalle danze barocche del Re Sole».
Come si definirebbe attraverso il suo lavoro?
«Sono sempre più uno scultore. Mi piace il legame diretto che si crea tra lo spettatore e l’opera. Cerco di esprimere l’idea del reincantamento del mondo, di come un artista possa portare speranza»
Progetti futuri?
«Il mio prossimo progetto sarà questa estate a Château in dialogo con un edificio di Renzo Piano. Sculture di 18 metri lungo il suo enorme muro di cemento. Poi un progetto chiamato Agora, un posto dove puoi entrare e sederti e dove la voce e le idee sono protette dall’opera d’arte. Forse potrò mostrarlo alla prossima Triennale in Danimarca: sono un sognatore, costruisco l’utopia, portando il genio della poesia nel mondo: è un atto politico. Poi ho in cantiere una grande esposizione al Museo Nazionale di Buenos Aires, da giugno a novembre, con più di 40 sculture realizzate negli ultimi 10 anni con il matematico messicano Aubin Arroyo».
(traduzione di Carla Reschia)