il Fatto Quotidiano, 9 giugno 2019
Intervista a Maurizio De Giovanni
Maurizio De Giovanni, scrittore e sceneggiatore, è nato a Napoli.
Il buongiorno partenopeo di Maurizio De Giovanni è sorseggiando il caffè, ma non come il luogo comune recita, con il sorriso e lo sguardo aperto verso la giornata; alle 8 e poco oltre della mattina ha già il cervello iperconnesso con la vita, la favella fluida e articolata, voce chiara, quotidiani letti, e una preoccupazione impellente: “Questa emorragia verso destra mi angoscia, non c’è più limite, stanno saltando tutti gli argini etici, anche quelli cattolici. Oramai come diceva Luigi Pintor ‘non moriremo tutti democristiani’”. E quindi? “Dobbiamo aggrapparci all’Europa, è l’unica”.
Sessantuno anni, 31 dei quali passati dentro a una banca, è un uomo appagato e compatibilmente sereno perché consapevole di fortune, guai e capacità; quando parla è in grado di visualizzare, di dettare i confini della parola, non dell’immaginazione, e come cantava Enzo Jannacci “per fare certe cose ci vuole orecchio”. A lui non manca, e per questo è uno degli scrittori più prolifici, amati, venduti, invidiato da alcuni colleghi proprio perché prolifico, amato e venduto. E dopo la fiction dedicata ai suoi Bastardi di Pizzofalcone, ora la Rai sta girando la serie ispirata a Il commissario Ricciardi.
È instancabile.
Mi diverto. Mica come ai tempi del lavoro in banca, quello era terribile.
Così tanto?
Lì è inevitabile il confronto quotidiano con i soldi che inquinano ogni rapporto umano: in 31 anni ho visto e vissuto di tutto, figli contro padri, fratelli azzannarsi, anziani trattati di merda.
Bel quadro…
E poi quando sei sottoposto a una forma di lavoro piramidale, è inevitabile confrontarsi con degli idioti. È statistica.
Insomma, è rinato.
Ogni giorno ho in mente un punto fondamentale della mia esistenza: sono fortunato, mi sento come Rocco Siffredi.
Uguali, uguali.
Mi pagano per scrivere e il pubblico è contento di vedermi; non solo: posso viaggiare in prima classe, ospitato in bellissimi hotel, mi applaudono a prescindere, anche se pronuncio una minchiata.
Una Pasqua.
Posso sempre esprimere la mia opinione e senza bluffare, libero di essere me stesso: con una situazione del genere, come posso qualificarmi “infelice”?
La banca l’ha proprio sofferta…
Da quando me ne sono andato non ho più indossato la cravatta, quel nodo lo considero una delle più alte forme di masochismo al mondo.
Alcuni suoi colleghi manifestano un certo fastidio per le presentazioni.
In quel caso è un atteggiamento: lo scrittore deve soffrire, deve risultare giallastro in volto, deve manifestare problemi gastrici, certamente emaciato, ancora meglio se con la forfora sparsa sulla giacca.
Una meraviglia.
Aggiungo: deve indossare il maglioncino anche d’estate, e gli altri non possono percepire minimamente quanta sofferenza costa tutto questo.
In realtà, chi è lo scrittore?
Uno che guarda dalla finestra.
Lei ha iniziato a guardare tardi.
Fino a 48 anni sono stato un buon lettore, uno da 4-5 libri al mese, e dei più vari argomenti, spaziavo, mi divertivo a scoprire, a capire i dettagli.
E poi?
Da quando scrivo ho leggermente ridotto la quantità e gli argomenti: ora per lavoro mi dedico molto alla saggistica e ai romanzi degli amici. Tra noi siamo uniti.
Tra voi giallisti?
È una realtà differente rispetto al resto della letteratura, dove la competizione è forte: qui invece ci conosciamo tutti, ci sosteniamo, ci inviamo le prime copie e poi attendiamo i commenti (sorride). Questi disgraziati scrivono come matti.
Lei produce più di tutti.
Allora sono disgraziato pure io. Però ho iniziato tardi, devo mettermi in pari con gli arretrati.
È sincero quando poi commenta i libri degli amici-colleghi?
Quando il romanzo è brutto, sto zitto, evito di parlarne.
Exit strategy.
Ma se uno va al battesimo del figlio di un amico, e il piccolo è brutto, cosa fa? Lo dice? I libri sono come creature, non si può offendere, e comunque ogni romanzo alla fine ha la sua dignità.
Quindi lei sta in “finestra”.
Vivo in una città che racconta storie, è una realtà scritta, l’unica in Italia con la periferia nel centro; mentre a Roma impieghi un’ora per passare dai Parioli (quartiere bene) alla Magliana (quartiere meno bene), da noi via Toledo o i Quartieri Spagnoli sono la stessa cosa.
E quindi?
La storia nasce da un conflitto, e dalla successiva costruzione di un riequilibrio; la storia è il racconto di un cambiamento, e a Napoli la quotidianità ribolle, per questo vado costantemente in giro e osservo.
Fonte inesauribile.
Ho più storie di quelle che posso raccontare, purtroppo non posso andare più veloce nella digitazione dei tasti, uso due dita, altrimenti chissà cosa combinerei.
Ama Napoli.
Vorrei dire al ministro dell’Interno…
Non lo nomina?
Non ricordo il suo nome (improvvisamente un’espressione sorniona), come non ricordo come si chiama la seconda squadra di Torino.
Dicevamo?
Napoli è sostantivo plurale, è la città d’Europa con il maggior numero di bambini e di immigrati; abbiamo una lingua influenzata da tutte le parole del mondo, un menù arricchito da infinite contaminazioni straniere. Questa è una città moribonda e immortale, ed è la sua ricchezza.
Perché?
La si può raccontare in ambo i modi, sia come moribonda che immortale, sono legittimi tutti i punti di vista.
Le altre città?
Milano e Torino sono realtà europee, Firenze e Venezia dei monumenti nei quali cammini; Roma è un conglomerato di città differenti, mentre a Secondigliano trovi la stessa identità culturale di Posillipo.
Ci sarà un pecca…
Il genio è frutto dell’individualismo e l’individualismo è il grande limite; ognuno di noi crede di essere diverso, ed è fatale che diventi egocentrico.
Un esempio.
Napoli non ha una casa editrice di livello nazionale, eppure gli scrittori bravi sono tanti; stessa storia per l’etichetta discografica.
Spiega Alessandro Gassmann di lei: “I suoi protagonisti sono umani, hanno sbagliato, o sono accusati di aver sbagliato”.
Racconto le imperfezioni, le crepe, le fratture, le alterazioni; narro l’eccezione, non la normalità. E con Alessandro c’è un rapporto bellissimo e costante: oltre a essere il protagonista dei Bastardi, ha portato a teatro alcuni miei lavori.
Ha due figli.
Uno si è laureato in Ingegneria, l’altro in Medicina.
Come giudicano il suo lavoro?
La stessa domanda l’ha posta un giornalista tedesco a loro. La risposta mi ha commosso: “Le storie più belle le ha raccontate a noi da piccoli, non a voi”.
Bello.
Nel 1998 ho divorziato, e sono rimasti con me, noi tre soli; siamo cresciuti insieme.
Si è risposato.
E a lei devo tantissimo, nutro una profonda riconoscenza, è il mio equilibrio.
Necessario…
Sono una persona instabile, vado per picchi, lei fa da contrappeso, bilancia gli eccessi.
La sua serotonina.
Ricordo ancora quando Fandango ha rimandato indietro il secondo manoscritto, era completamente segnato di rosso, correzioni continue, suggerimenti che per me erano coltellate.
E…
Lo buttai nel cestino con la frase: è finita; quindi andai a letto distrutto. Lei no. Lo riprese dalla spazzatura, si mise alla scrivania, e al mio risveglio trovai il lavoro completato.
Ora è sempre in giro, quando trova il tempo?
Ogni attimo è buono: ieri ho scritto sei pagine, un intero capitolo, da mezzanotte all’una.
Fenomeno.
Non sono un grande scrittore, punto più sulla storia: io la vedo nella mia testa e la butto giù con un flusso creativo diretto.
Alla Picasso.
Per carità, non sono neanche un genio, né un artista. Ribadisco: narro solo ciò che vedo, mi basta anche lo sguardo di due ragazzi che si baciano al treno, o lo scambio tra persone dentro un bar.
Prende appunti?
Non mi serve.
Le arrivano molti manoscritti?
Tutti ritengono di poter scrivere.
Ma oggi è difficile viverci.
È vero, siamo in pochi, oggi è veramente complicato.
Ama i suoi personaggi?
Da loro sono coinvolto affettivamente, anche dai peggiori, perché dentro hanno comunque un motivo, e per narrarli è obbligatorio comprenderli; lo scrittore è la guida turistica della sua storia.
Lei-uomo rispetto alla sua seconda vita.
Sono peggio di quindici anni fa, ero più giovane e migliore, solo che ora sono in possesso di un importante microfono virtuale.
È una responsabilità.
Molto grande, ma uno non deve arrivare a cambiare ciò che pensa.
Mai.
Poche settimane fa la Rai mi porta in uno dei quartiere di Napoli considerato a rischio; mentre mi microfonano si avvicinano dei ragazzi che non mi conoscevano, alcuna idea di chi fossi, però avevo il microfono, questo a loro bastava.
Allora?
Senza tanti preamboli partono con una richiesta: “Potete dire che qui non c’è lavoro?”. Chiaro? Quei ragazzi mi avevano assegnato un mandato, e così è stato: appena collegato ho manifestato subito quell’esigenza.
Il giornalista?
Mi ha guardato come fossi pazzo, ma è fondamentale offrire la voce a chi non ha quel microfono.
Le sono arrivate proposte dalla politica?
Sì.
Ci pensa?
No, non sono un politico, il mio è un altro ruolo.
Lei è famoso.
Un po’ di tempo fa questa frase l’ha pronunciata il mio medico.
A proposito?
Con una nota di disappunto mi ha spiegato: “Non ti voglio più come paziente, sei sovrappeso, e non posso rischiare di perderti: in caso di morte farei una figura di merda”.
Risultato?
Mi sono messo a dieta e ho perso 24 chili.
I suoi libri sono densi di storie d’amore.
Il sentimento è il denominatore comune, vuol dire parlare dell’unica sfaccettatura umana.
Mai la Camorra.
Perché sul piano narrativo per me è come un gruppo d’affari, è come Wall Street con la pistola, e non mi interessa, non la conosco così a fondo da poterci interagire in modo da creare un denominatore comune.
Che poster aveva nella sua stanza da bambino?
Prima di essere un marito, un padre e un figlio, sono un tifoso del Napoli: la mia scala di valori parte dal dodicesimo posto, i primi undici sono la formazione titolare.
Ecco…
Il mio libro migliore è Il resto della settimana, quindi quei giorni inutili tra un partita e l’altra.
Sarri allenatore della Juventus?
Dal momento in cui non sono più nel Napoli, cessano di esistere.
Report
la settimana scorsa ha attaccato il caffè napoletano.
E pensare che lo bevo solo qui, per me è una necessità, quando esco da Napoli salto l’appuntamento con la tazzina. (Ci pensa) Forse non sono andati da Tico al Duomo, lì il caffè è una delle poche prove dell’esistenza di Dio, non a caso è davanti al Duomo. Scatta la conversione.
Chi è lei?
Un signore di sessant’anni, per ora, che ha vissuto e ama raccontare.
(Magari, come cantava Pino Daniele: “Napule è ’na cammenata, dint’ e viche mmiezo all’ate…”)
Twitter: @A_Ferrucci