La Stampa, 9 giugno 2019
Il governo dei dati digitali
Con la riunione dei ministri delle Finanze del G20 a Tsukuba è iniziata la battaglia sull’agenda del summit di fine mese a Osaka che pone le venti maggiori economie del Pianeta davanti alla necessità di darsi un’agenda comune sulla governance dei dati a dispetto dei disaccordi su dazi e commerci.
A mettere questo obiettivo al centro del summit è stato il premier Shinzo Abe quando, intervenendo al Forum Davos in gennaio, ha illustrato il concetto di «Data Free Flow and » ovvero la necessità di un approccio diverso ai differenti tipi di dati digitali: quelli relativi alle persone fisiche, alla proprietà intellettuale ed alla sicurezza nazionale devono essere protetti mentre quelli scientifici, medici, industriali relativi al traffico anonimo che non comporta benefici individuali potranno essere liberamente condivisi. È la prima volta che viene ipotizzata una cornice di valori per la gestione dei dati digitali - che distinguono l’età digitale in cui ci troviamo - e per rafforzarla Abe propone al G20 anche di fare propri i principi sull’Intelligenza Artificiale approvati in maggio dai 36 Paesi dell’Ocse in favore di un sistema «giusto, responsabile, trasparente, basato su Stato di Diritto, diritti umani, valori democratici e diversità». Si tratta di una ricetta per affrontare la sfida della «Società 5.0» ovvero la necessità di gestire una produzione di dati digitali che, secondo un recente studio, cresce ad un ritmo di 2,5 quintillioni di bytes al giorno pari a 250 mila volte l’intero materiale scritto conservato dalla Biblioteca del Congresso degli Stati Uniti.
Il flusso di dati è ciò che accomuna Intelligenza Artificiale, «Internet of Things» e robotica da cui dipende la trasformazione della mobilità degli esseri umani nella rivoluzione digitale così come avvenne per l’elettricità durante la rivoluzione industriale. Arrivare ad un’intesa al G20 sulla cornice di principi condivisi sulla governance dei dati consentirebbe ad ogni Paese di avere dei riferimenti da cui poi muoversi, nel rispetto delle singole prerogative e culture nazionali.
A sottolineare l’opportunità che abbiamo davanti c’è lo studio redatto Centro di studi strategici ed internazionali (Csis) di Washington che propone di sfruttare il summit giapponese per condividere tre principi. Primo: consentire a singoli e società di adottare scelte consapevoli su come generare, usare e condividere i dati. Secondo: proteggere i diritti umani ed usare i dati per difendere i diritti dei cittadini. Terzo: salvaguardare il diritto di innovatori, imprenditori e providers di raccogliere, condividere e usate i dati a patto che non violino i due precedenti principi.
Insomma, il G20 di Osaka - il quattordicesimo summit di questo tipo - può davvero diventare il primo dell’era digitale ma per cogliere tale opportunità vi sono da superare una molteplicità di ostacoli frutto dei conflitti che segnano le relazioni internazionali. Il più evidente è lo scontro sui dazi fra Stati Uniti e Cina che minaccia, secondo stime del Fmi, di causare un arretramento del pil globale dello 0,5 per cento nel 2020. In secondo luogo c’è la convergenza fra Russia e Cina determinate a sfidare l’Occidente anche sul fronte digitale, come la loro intesa sul caso Huawei dimostra. Infine, ma non per importanza, le resistenze di giganti commerciali come l’India che vedono nell’agenda digitale di Osaka una trappola destinata a nuocere al loro sviluppo nazionale. Per l’Unione Europea che ha visto il proprio Parlamento pronunciarsi in favore della protezione dei diritti digitali dei singoli può essere l’occasione per dare seguito a questo tentativo di far coincidere innovazione e Stato di diritto. A patto di riuscire a far parlare gli europei con un’unica voce.