Corriere della Sera, 9 giugno 2019
La Turandot pop di Cocciante
Ci mette passione: «Penso a una fusione tra passato e presente, tra Oriente e Occidente. All’incrociarsi di culture diverse». La storia tormentata di Turandot, principessa di ghiaccio e poi donna innamorata, riscritta in chiave di opera popolare. Sullo sfondo, la sagoma di Giacomo Puccini, la romanza best seller Nessun dorma, la schiava Liù, il re tartaro Timur e il nobile Calaf. Il progetto ha occupato la testa di Riccardo Cocciante, per sedici anni: da quando, nel 2003, mentre Notre-Dame de Paris raccoglieva applausi tra Pechino e Shanghai, una lungimirante produttrice gli chiese di mettere in musica «una storia per i cinesi». Sedici anni dopo, la Turandot di Cocciante è un treno lanciato verso l’Oriente. Debutto a Pechino nei primi mesi del 2020. Nel cast artistico: il coreografo e regista belga Micha Van Hoecke; l’attore Chen Su, dell’Opéra National de Paris; il designer di luci Jacques Rouveyrollis, lighting designer delle celebrazioni per i 120 anni della Torre Eiffel; e la costumista premio Oscar Gabriella Pescucci, che ha partecipato al successo di film come L’età dell’innocenza, C’era una volta in America, La fabbrica di cioccolato e ha già collaborato con Cocciante per Giulietta e Romeo.
Dunque Riccardo, come reagì alla proposta della produttrice cinese?
«Naturalmente, ero perplesso. Mi chiesi: come posso affrontare una simile impresa? Io, francese e italiano?».
Ma il sasso era lanciato.
«Ipotizzammo una storia. Ci venne in mente Marco Polo. Ma io scartai subito l’idea: non mi apparteneva. Poi pensammo a Turandot, una fiaba magnifica che contiene la novellistica mediorientale, la tradizione cinese e il melodramma italiano?».
Fu quello l’inizio di tutto?
«Lì per lì, dissi ancora no. Dovevo trovare una chiave tutta mia. Ma l’idea cresceva nella mia testa. Infine mi convinsi che valeva la pena provarci. Ma mi posi una condizione».
Quale?
«Non avrei fatto il Puccini 2, ma il Cocciante 1. Un’altra cosa, diversa. Nuova. Opera popolare al cento per cento, con una linea melodica personale, seguendo un personale linguaggio musicale».
Turandot debuttò in Cina nel 1998 in un’edizione diretta da Zubin Mehta, con la regia di Zhang Yimou e interpreti come Giovanna Casolla, Audrey Stottler, Sharon Sweet. Turandot è anche l’opera che Puccini non completò mai e che Arturo Toscanini, nel 1926 alla prima alla Scala, interruppe spiegando al pubblico: qui il Maestro è morto.
Una grande storia.
«Sono partito da lì. Ma ho composto la mia Turandot. Del resto, quante versioni di Giulietta e Romeo esistono oltre a quella di Shakespeare? Picasso ha ridipinto Le déjeuner sur l’herbe di Manet ed è nato un altro capolavoro».
Nel 2006 la sua «Turandot» era finita.
«Le registrazioni erano nel mio cassetto, frutto di un lavoro compiuto con Pasquale Panella. Da allora abbiamo cercato la strada migliore per valorizzare il progetto».
Punto fermo, le melodie.
«Sì, le melodie sono importanti. Ma lo è anche la strumentazione. In questo caso si passa dalla chitarra elettrica alla tastiera elettronica alla grande orchestra. Non c’è l’impostazione operistica. Ci sono le canzoni, un racconto atemporale che sposa in un unico affresco gli avvenimenti del passato e i temi di oggi».
Dal «Tempo delle cattedrali» di Notre-Dame al «Tempo delle favole» di Turandot, che viene da una novella di Carlo Gozzi. La nuova produzione è stata varata nella Città proibita di Pechino, dove Bernardo Bertolucci girò L’ultimo imperatore.
«Turandot ha molte chiavi di lettura. Ma è anzitutto un inno alle donne e alla loro capacità di interpretare il mondo attraverso i sentimenti».