Corriere della Sera, 9 giugno 2019
Rossana Rossanda ricorda Lucio Magri
«Un’Italia così non me la ricordavo. L’avevo lasciata nel 2005-2006 per trasferirmi a Parigi. Il clima di adesso è pieno di risentimento. Tutti ce l’hanno con tutti», sostiene Rossana Rossanda, classe 1924, un nome che dice poco ai ragazzi di oggi e che tra la fine degli anni Sessanta e nei due decenni successivi era noto a parecchi nelle università e nelle scuole. Nata a Pola, diventò comunista tra Milano e Venezia nel 1943 mentre la repressione nazifascista contro i partigiani era feroce. «Li ho visti gli impiccati, il collo storto, le membra lunghe e abbandonate», scrisse successivamente. Il viso di questa donna che adesso si muove su una sedia a rotelle sembra tuttora meno anziano di quanto è. In gran parte lo si deve a un aspetto: agli occhi di molti, li ha da sempre i capelli di un grigio argentato. Le si imbiancarono a 32 anni d’età, cambiarono di colore nel 1956. Successe durante i giorni dell’invasione sovietica dell’Ungheria. Dirigente locale del Partito comunista italiano, combattuta tra un certo spirito libertario e un’usurata fiducia per Mosca, lei rimase colpita dalla foto di un funzionario durante la rivolta ungherese. Era impiccato a un fanale.
«Il povero e l’oppresso hanno sempre ragione. Ma i comunisti che si fanno odiare hanno sempre torto», affermò 50 anni più tardi Rossana Rossanda nel ricordare quel periodo e i tormenti nella sua coscienza. Con un ragionare pacato nei toni e radicale nella sostanza, ha affascinato sia studenti della «sinistra rivoluzionaria» sia intellettuali italiani e stranieri. Nel 1969 sdegnò numerosi dirigenti del Pci, partito nel quale era cresciuta e che la radiò perché con il gruppo del Manifesto aveva condannato risolutamente l’invasione sovietica di Praga. Una nuova pagina nera, quell’aggressione sferrata da Leonid Breznev contro la capitale della Cecoslovacchia, in una storia immaginata in precedenza migliore. Rossana Rossanda rimase comunista anche quando Achille Occhetto, chiudendo un’era della politica italiana, dopo il 1989 propose di trasformare in Partito democratico della Sinistra il Pci nel quale lei non era mai rientrata. Nonostante tutto, non si è arresa. Con Luciana Castellina, il mese scorso, è intervenuta a un incontro nella Casa delle Donne per la campagna elettorale de La Sinistra.
Mente lucida, labbra vivide con rossetto brillante, «La ragazza del secolo scorso», come Rossana Rossanda si definì in un suo libro edito nel 2005 da Einaudi, è seduta nello studio di casa a Roma. Qualche sguardo agli scaffali della libreria permette di rintracciare ingredienti sparsi della sua formazione e dei suoi interessi: La città futura 1917-1918 di Antonio Gramsci, saggi in francese e in inglese, letteratura, filosofia. Molta la storia, da I ricordi di Marco Aurelio a The nemesis of power. The German Army in politics 1918-1945. La conversazione che segue comincia parlando della ragazza diciassettenne lasciatasi morire in Olanda, giorni fa, perché non desiderava più vivere. Fu Rossana Rossanda, nel 2011, ad accompagnare in Svizzera Lucio Magri, 79 anni, un altro dei fondatori del Manifesto, quando lui fece porre fine alla propria esistenza. Per età e motivazioni della scelta, due casi diversi. Così l’incontro è proseguito parlando di Magri e altri argomenti che il suo suicidio assistito può evocare. Che cosa è la vita, la propria vita, per alcuni ex dirigenti comunisti cresciuti nel sogno di un’uguaglianza nella giustizia secondo i termini teorizzati da Karl Marx. Che cosa hanno provato queste persone, nel Paese che ebbe il più forte partito comunista dell’Occidente, quando soltanto al principio degli anni Novanta riconobbero l’uscita del comunismo dagli eventi realizzabili in un futuro accessibile ai contemporanei. Che cosa è l’Italia di oggi vista a 95 anni dalla ragazza del secolo scorso. Doveroso premettere che Rossana Rossanda, tra 1978 e 1979, al Manifestoquotidiano è stata direttore di chi scrive queste righe.
Quali riflessioni derivarono dall’accompagnare Magri al suicidio assistito?
«Pensavo e penso che lui avesse diritto. Non mi sono opposta alla sua volontà di finire».
Affinché arrivasse il suo ultimo giorno andaste insieme vicino Zurigo. La misura nell’uso delle parole rende l’idea di quanto accade più di alcuni toni alti. Sulla morte di Magri la tua descrizione fu questa: «È stato tristissimo. Non terribile, ma tristissimo».
«Lucio aveva perduto sua moglie a causa di una malattia».
Mara, scomparsa tre anni prima. La mancanza di lei accentuò un suo malessere?
«Sì. Rispetto agli altri amici che non erano d’accordo sulla scelta di Lucio io non ho avuto difficoltà ad accompagnarlo. Ma per lui, come per tutti, decidere di morire non è semplice. E lui aveva la sensazione che ormai non c’era più niente da fare. Non solo, come è ovvio, per la sua compagna. Anche per la vita politica».
Dunque per quanto era successo dopo il 1989, l’apertura del Muro di Berlino, e la fine dell’Unione Sovietica nel 1991. Ma tu, Magri e altri, nel 1969, foste radiati dal Pci perché eravate in contrasto con il vostro partito sull’Urss e sull’invasione della Cecoslovacchia. Perché risentire fino a quel punto della sconfitta sovietica? Fosti tu tra 1977 e 1979 a promuovere i convegni del Manifesto sulle «società post-rivoluzionarie», atti d’accusa contro la dittatura di Breznev.
«Fummo radiati perché eravamo in dissenso con il partito. Il nostro dissenso con l’Unione Sovietica però veniva da lontano».
E come mai il collasso dell’Urss doveva essere motivo di disperazione per Magri?
«Perché non era solo il crollo dell’Unione Sovietica, ma delle nostre speranze in Italia. Del resto guarda un po’ come va oggi. Non è che Lucio sbagliasse. Allora al governo c’era stato fino a poco prima Silvio Berlusconi».
Tuttavia sei stata ragazza durante il fascismo. Non è che in gioventù avessi vissuto momenti politici migliori per una comunista. Erano stati infinitamente peggiori.
«Ero giovane».
Rispetto alla vita, la vostra generazione ha conosciuto molto più dolore rispetto a chi in Italia è giovane adesso.
«Vedere finire ogni speranza di una vita diversa non è cosa da poco».
Non credi di aver dato ad altri insegnamenti che non si disperdono?
«Non mi pare di aver fatto niente di speciale».
Davvero?
«Davverissimo».
Venivi ascoltata sempre con attenzione e rispetto in riunioni e assemblee. Le divergenze politiche e vicende della vita ci hanno portato in tanti su strade diverse da quella del Manifesto, ma, solo nel campo del giornalismo, tu sei stata considerata una dei maestri anche da Gianni Riotta, Lucia Annunziata, Norma Rangeri che invece al Manifesto è rimasta e lo dirige.
«È una vostra fantasia. Molte cose sono state insegnate a me. Avevo 15 anni nel 1939. Dal 1939 al 1945 ero già abbastanza grande. Ho imparato. Non era semplicissimo. Non è che si trovassero i comunisti o gli antifascisti così facilmente. Quindi sono stati i libri ad avermi fatto maturare, soprattutto quelli esteri. Penso a Fascisme et grand capital di Daniel Guérin».
Credi che non esista alcuna prospettiva per la sinistra? E, dal tuo punto di vista, nessuna possibilità per un miglioramento del genere umano?
«Comunque quello che era un nostro progetto era proprio fallito. Adesso poi le cose sono peggiorate. Non è semplice accettare che la persona adesso con più peso in Italia sia Matteo Salvini. Non è un problema?».
Un italiano, qualunque sia la sua posizione politica, se lo considera problema non lo ritiene certo di vita o di morte. E tu, Luigi Pintor, Valentino Parlato e altri dirigenti della sinistra diffidando di vari estremismi insegnavate a fare i conti con la realtà: cercare di capire qual è il campo di battaglia e se le vie desiderate non funzionano, trovarne di nuove.
«In effetti è solo Lucio che anche per le valutazioni politiche ha deciso di finire. Noi no».
Che la fine di un sogno strutturato in ideologia possa causare disagio, dolore è comprensibile. Eppure a sinistra c’è chi rispetto ai comunisti ha azzardato meno nell’ambizione, nell’utopia, e ha compreso meglio la realtà. Molti socialisti, laburisti, socialdemocratici.
«Ma non è che il realismo ti obblighi ad accettare tutto».
Questo «tutto» è riferito alle ingiustizie, allo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Però le condizioni dei lavoratori italiani sono migliori di 50 anni fa. Senza rinunciare a uno spirito critico sulla società attuale, è un dato di fatto. Andrebbe riconosciuto.
«Dipende. Bisogna misurarsi anche con le speranze. In ogni modo, io non mi sono uccisa. Ho accompagnato Lucio. E non credo che in Italia si stia meglio di 50 anni fa. Perché conta anche l’investimento che fai nelle speranze. Adesso ce n’è molto poco».
Un po’ come una spiegazione che il Manifesto diede delle proteste studentesche del 1977? Contava relativamente che i giovani non fossero poveri come lo erano stati i genitori, si sosteneva, se in tempi di crisi economica l’aver studiato non garantiva loro il tipo di lavoro sperato. È un paragone valido anche per l’oggi?
«Le aspettative delle persone contano. Anche adesso».
Tornando al rapporto tra situazione attuale, passato, speranze e delusioni incontrate dalla tua generazione, non solo da chi era comunista: ma voi non avete visto di peggio? E in tanti non reagiste con tenacia? C’erano stati la guerra e i campi di sterminio, in Europa, mentre eravate giovani voi.
«È un’altra dimensione quella dei campi di sterminio. Vale la riflessione di Primo Levi: chi non l’ha provato non ha conosciuto quel senso di annullamento».
Sopravvissuti ai lager nazisti della Shoah sono poi emigrati in Israele e lì hanno contribuito a far nascere banane nel deserto, a trasformare aree desertiche in zone coltivate. A maggior ragione la storia va spinta in avanti, non indietro.
«Sì, è vero. Però in questo contesto che cosa vuol dire: che Lucio aveva torto?».
Vuol dire che il suo dolore esistenziale e individuale merita rispetto, ma la sua scelta non era una via per tutti voi.
«Se rileggi i libri di Luigi neanche lui era molto positivo (Luigi Pintor, altro fondatore del Manifesto, direttore e corsivista brillante che spiccava per graffiante ironia e che allo stesso tempo soffriva il peso interiore di un’amarezza provata da quando nel 1943 il fratello Giaime morì su una mina, ndr)».
Di sicuro Luigi Pintor non era sempre ottimista. Il suo Servabo, parola latina che ha tra i suoi significati «conserverò» oppure «servirò, sarò utile», è un libro sofferto. Tuttavia sul serio anche molto utile.
«Certo. A quale aspetto ti riferisci in particolare?»
Pintor spiegò così come mai gli esseri umani, mortali, si sforzano «in forme esasperate» per accumulare denaro, costruire relazioni e avere potere: perché sentono di doversi curare quando in un momento dell’esistenza arriverà «l’accerchiamento finale». Però a chi assiste una persona cara che sta male alcuni passaggi di Servabo possono dare conforto. Soprattutto uno: «Non c’è in un’intera vita cosa più importante da fare che chinarsi perché un altro, cingendoti il collo, possa rialzarsi».
«Comunque puoi capire che per qualcuno la speranza ideale, politica, sia una sfida di vita o di morte. Puoi dire: “Non sono d’accordo”».
Che cosa legge attualmente Rossana Rossanda? Che cosa guarda o che ascolta?
«Ho cercato di capire un po’ più della politica italiana ed è veramente desolante, devo dire».
Lo sostengono in parecchi, al di là delle collocazioni politiche. A volte, comunque, le persone delle quali non si condividono le idee possono fornire insegnamenti a ciascuno di noi se riescono a vedere qualcosa di noi che non vediamo o non vogliamo vedere.
«Vero, eppure nella circostanza specifica aiuta poco. E personalmente non ho rancori. Se penso al passato, neanche verso Giorgio Amendola. Constato che alcuni dirigenti del Pci, più tardi, hanno voluto demolire il Partito comunista. Hanno fatto bene? Non lo penso».
Parlavi di fallimento di un progetto. Ritieni possibile migliorare lo stato delle cose senza sottoporre a cambiamenti criteri e finalità dell’ideologia nella quale ti formasti?
«Domanda del tutto legittima. Ma sono convinta che l’Italia sia peggiorata, non migliorata in questo periodo. Da quando l’avevo lasciata, poi, è un Paese involgarito».