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 2019  giugno 08 Sabato calendario

orsi & tori

Chi pensasse che la (momentanea?) fine delle trattative per l’integrazione fra Fiat Chrysler e Renault+Nissan sia solo un affare di automobili si sbaglierebbe di grosso. Per comprenderlo basta leggere il commento da Roma del corrispondente del Frankfurter Allgemeine Zeitung, il più autorevole quotidiano tedesco. Thobias Piller già dal titolo è pro Fiat Chrysler: «Sconfitta per Renault e Francia». E cita il comunicato di John Elkann di ritiro dalla trattativa per ricordare le parole di plauso verso il management sia di Renault che di Nissan e Mitsubishi «per il loro costruttivo impegno». Ergo i cattivi sono al governo e per Piller in particolare il presidente Emmanuel Macron. Dalle parti di Parigi, sostiene, è sempre e solo una questione di potere. L’indipendenza della Faz e di Piller è fuori discussione ma rispecchia il punto di vista tedesco, di cui concorre in maniera importante a formare l’opinione. Il caso Fiat-Chrysler/Renault non fa eccezione ed è durissimo verso la Francia e il suo presidente.«Con la sua politica nazionalista, con un orizzonte limitato, il governo francese ha reso un pessimo servizio anche all’Europa», scrive secco Piller. «Il gruppo automobilistico che sarebbe nato da Fiat-Crysler e Renault sarebbe stato il terzo al mondo. E inevitabilmente non sarebbe stato guidato più, come adesso, da Detroit. L’industria automobilistica europea avrebbe avuto un altro protagonista con un carattere italiano e francese, con un profilo molto più internazionale del gruppo Renault di oggi. Fa ancora più pensare il fatto che quell’atteggiamento francese di fronte alla fusione proposta da Fiat-Chrysler potrebbe solo essere un assaggio della politica con la quale il presidente francese Macron vuole far felice tutta l’Europa. Per questa ragione bisogna essere assolutamente scettici di fronte alle intenzioni di Macron di piazzare un suo candidato al vertice della Commissione Europea e di far prevalere in questo modo la Francia nella politica economica».
Ecco appunto che una fusione fra eguali fallita per ragioni di potere da parte del governo francese diventa rivelatrice di molto di più: sia pure nella visione della Faz, che tuttavia è come dire la visione del mondo economico tedesco e non solo del mondo economico, il tentativo di Macron, evidentemente già in atto, di piazzare al vertice della Commissione Europea un francese o un sostenitore delle posizioni francesi è da considerare dabbasso per l’Europa intera.
Ma la posizione netta della Faz vuol dire ancora di più, probabilmente: e cioè che Germania e Francia, i quali sembravano voler dominare insieme l’Europa, non sembrano più alleati certi.
Le ragioni sono in primo luogo di ordine politico e poi di puro potere in Europa. Se Macron sembrava un partner ideale di Angela Merkel, ora, dopo le elezioni del Parlamento Europeo, si trova di fronte una Germania molto, ma molto verde, che non è un colore derivato del giallo dei giubbetti francesi ma una sintesi di valori non perfettamente coincidenti con la posizione conservatrice di Macron.
C’è poi lo scacchiere delle posizioni chiave del potere in Europa. Se si comincia dalla Banca Centrale Europea, è stranoto che ad aspirare alla successione di Mario Draghi è il quasi ex falco, presidente della Bundesbank, Jens Weidmann. Quasi falco perché dopo aver combattuto a lungo le posizioni accomodanti di Draghi (nello storico consiglio della Bce del luglio 2011 fu l’unico a votare contro la proposta di Draghi di far acquistare alla Bce titoli di Stato e non solo dei Paesi in difficoltà), da alcuni mesi la posizione di Weidmann si è quasi totalmente allineata a quella di Draghi. E per una semplice, duplice ragione: 1) perché la maggioranza dei Paesi rappresentati nel consiglio della Bce hanno pienamente apprezzato la politica accomodante di Draghi, che anche nella conferenza stampa dei giorni scorsi ha sottolineato come uno dei target fondamentali della Banca, l’inflazione, sia ben lontano dal target del 2%, senza il quale manca benzina alla crescita; 2) perché a essere colpita da una crescita modestissima dell’economia è la stessa Germania, che invece all’epoca dell’atteggiamento di super-falco di Weidmann marciava come un treno grazie al trend inesauribile delle esportazioni, specialmente in Cina e negli Stati Uniti, in particolare delle automobili.
Ora, come è sotto gli occhi di tutti, lo scenario mondiale è completamente cambiato: prima ancora che i dazi americani, minacciati da Donald Trump anche verso l’Europa, hanno pesato le multe salatissime all’industria automobilistica tedesca per violazione delle norme sull’inquinamento e il fatto che la Germania, producendo in patria, va oggettivamente contro lo slogan presidenziale, America First.
Ancora di più pesa la politica anti-Cina attuata da Trump, che inevitabilmente, essendo ancora in vigore l’alleanza Europa-Usa, limita la voglia dei cinesi di tenere altissimo il rapporto di affari con la Germania.
Ma non solo: se si va indietro nel tempo, la decisione di Barack Obama di far porre anche ai Paesi alleati sanzioni commerciali alla Russia è stata sì subita da tutta l’Europa, ma in primo in luogo del Paese leader, la Germania, con calo forte delle esportazioni.
Ora, probabilmente, ci deve essere anche un senso di autocritica da parte della Germania, che delle cause per l’applicazione delle sanzioni fu allora una sorta di protagonista. Fu infatti la Germania ad appoggiare più di ogni altro Paese europeo sia la richiesta dell’Ucraina di aiuti alla Ue sia la richiesta, storicamente comprensibile ma assurda, da parte della Polonia di far entrare nella Nato addirittura l’Ucraina, un Paese con migliaia di chilometri di confine con la Russia oltre che con 18 mila cittadini di lingua e origine russa.
L’apparente amicizia di Trump con Putin non ha cancellato le sanzioni degli Usa e dell’Europa verso la Russia, che si è difesa alleandosi con la Cina per mega progetti e per l’esportazione di petrolio e gas e rendendosi autosufficiente (o quasi) in alcuni settori, come quello degli ortaggi. Tutto ciò si è tradotto in un danno economico anche, se non soprattutto, per la Germania, che quindi in questo momento non gode di grande forma dell’economia. E quando i tedeschi sentono odore di rallentamento della crescita non esitano a cercare di capire come far ripartire l’economia. Un modo è sicuramente quello di non essere più falchi, a cominciare dalla politica della Ue, ottenendo così, se succederà, due obiettivi: far salire per la prima volta un tedesco al vertice della Bce e avere per il tempo necessario una politica monetaria accomodante anche dopo l’uscita, a fine ottobre, di Draghi, almeno fino al momento in cui il pil tedesco riprenda a correre.
Ovviamente, se passasse il disegno della Francia di avere come contraltare al potere tedesco nella Bce addirittura la presidenza della Commissione Europea, i rischi di conflitto potrebbero crescere fra i due Paesi che nell’ultima legislatura europea hanno fatto, insieme, il bello e il cattivo tempo. Basti pensare al gioco di squadra realizzato nel Meccanismo Unificato di Vigilanza (di fatto indipendente della Bce). La presidente Danièle Nouy è stata infatti il braccio armato della politica da falchi auspicata allora da Weidmann. Ora presidente del Meccanismo è un italiano, Andrea Enria, che in precedenza era a capo dell’Eba, l’Autorità Bancaria Europea. Come dire che il gioco di squadra fra tedeschi e francesi è più difficile anche sul piano bancario, e tale resterà anche se Weidmann diventerà presidente della Bce.
Ma ciò che ha messo a nudo Piller del sentimento attuale tedesco verso la Francia crea molti altri spazi, se solo il governo in carica saprà coglierli. Da tempo Luigi Di Maio e anche il più collaudato Matteo Salvini sbandierano che l’Italia ha diritto ad avere un commissario europeo invece del quasi inutile e velleitario ruolo di coordinatore della politica estera europea che Matteo Renzi, sbagliando, negoziò per la pur brava Federica Mogherini. Il ministero economico più importante è quello appunto di commissario all’Economia, attualmente occupato, guarda caso, dal francese Pierre Moscovici. Ma è molto importante anche quello all’Agricoltura, alla quale sembra ambisca la Lega. C’è anche quello alla Concorrenza, che fu, nella sua migliore performance politica, di Mario Monti e attualmente è ricoperto con indubbio successo e rigore dalla danese Margrethe Vestager, legittimamente aspirante a presidente della Commissione. Per il ruolo finora da lei occupato serve una personalità difficilmente ora reperibile nell’area del governo attuale, che ormai negozierà la composizione della Commissione Ue. È poi un ministero del no e del rigore, mentre all’Italia serve un ministero (tale è il ruolo del commissario Ue) del sì, della politica dell’espansione.
Il commento di Piller per la Faz è uno dei rari segnali a favore dell’Italia che arrivano dalla Germania e arriva per tutti i mutamenti di scenario avvenuti in questi ultimi mesi. In primo luogo, giova ripeterlo, la crisi (anche se è una parola eccessiva) della crescita economica della Germania.
Sapranno i nostri due eroi nemici e amici per la pelle, che se potessero si strapperebbero l’un l’altro, nonché l’autodefinitosi avvocato del popolo Giuseppe Conte, avviare una trattativa solida che parta proprio dalla nuova simpatia della Germania verso l’Italia?
Intendiamoci: è una simpatia di convenienza, come sempre nella politica, ma attraverso le parole dell’amico Piller si comprende che nel nuovo momento della Germania c’è anche un modo intelligente e giusto di interpretare il ruolo della Ue. Lo si comprende quando la Faz scrive che l’integrazione fra Fiat-Chrysler con Renault avrebbe rafforzato non poco il sistema automobilistico europeo, dove certo la Germania ha il primato ma ha provato a sue spese che avere auto di alta qualità non basta nell’era che tende, se non alla fine, alla modifica della globalizzazione, con il sentimento, prevalente su tutti gli altri, della grande maggioranza dei cittadini del mondo di voler respirare aria pulita, salvando il Pianeta. E il senso, oltre che l’obiettivo, dei padri fondatori della Ue qual era se non quello di creare convergenza e unità nel Vecchio Continente, il più ricco di cultura e di democrazia, per difendersi e competere sia con gli alleati Usa che con il nuovo leader del mondo, la Cina?
P.S. Mi permetto in questo post scriptum una licenza personale, anche se poco c’entra con il tema di questo «Orsi&Tori», per rendere omaggio a Diego e Andrea Della Valle, per quanto hanno fatto per Firenze, la mia città, e la Fiorentina, la maglia che ho indossato, investendo in 17 anni 286 milioni per salvare la squadra dal fallimento di Vittorio Cecchi Gori e portandola ai vertici delle squadra italiane: quattro volte in Champions, quattro volte in Europa League, in finale in Coppa Italia, creatori per primi di una squadra femminile, campione d’Italia, vincitore di Coppa Italia e Supercoppa e due volte in Champions. Più 500 giovani lanciati, con la creazione di campioni veri, come da ultimo Federico Chiesa. Ma omaggio anche al coraggio di Rocco Commisso di essere stato totalmente trasparente, dichiarando che da sempre era juventino, come del resto Diego e Andrea erano interisti. Questi sono i miracoli della Fiorentina, perché è di Firenze. E fa piacere che ad aver raccolto il testimone sia un uomo oggi miliardario come Rocco (come preferisce farsi chiamare), ma partito come emigrante. I tifosi dovranno rispettarlo e non solo sullo slancio del suo sbarco a Firenze, ma anche in ogni circostanza, perché non si compra la Fiorentina se non si ama Firenze. Grazie Rocco. Ci vediamo a cena con Diego, Andrea e tutti quelli che in questi 17 anni hanno lavorato per la Fiorentina. Come ho promesso, ospito io a Rocca di Frassinello.