il Fatto Quotidiano, 8 giugno 2019
Sul set c’è il garante per le scene di sesso
Con i se e i ma non si fa la storia, nemmeno quella del cinema. Chissà però che ne sarebbe stato della famigerata scena con il burro di Maria Schneider e Marlon Brando in Ultimo tango a Parigi di Bernardo Bertolucci o del cunnilingus di tredici minuti ricevuto – complici le pressioni del regista e l’abuso di alcool, secondo alcuni – da Ophélie Bau in Mektoub, My Love: Intermezzo di Abdel Kechiche all’ultimo Festival di Cannes, se su quei set ci fosse stato un “intimacy coordinator”. Nata sulla spinta del caso Harvey Weinstein e del movimento #MeToo, è figura nuova, per ora appannaggio dell’audiovisivo americano e anglosassone. Sul set della serie con James Franco e Maggie Gyllenhaal The Deuce, Hbo annunciò lo scorso ottobre che un “coordinatore dell’intimità” sarebbe stato di lì in poi presente su tutte le proprie produzioni che prevedessero scene di sesso. Per fare che cosa? Supervisionare le prove, stabilire in anticipo le nudità, sincerarsi dell’esplicito consenso degli attori prima del contatto fisico, predisporre guaine e marsupi per evitare l’accostamento dei genitali, prescrivere termini adatti per indicare parti del corpo e attività sessuali, assicurarsi la completa coreografia delle scene di sesso, come se fossero di lotta, e così via.
Ita O’Brien, londinese che ha lavorato per Hbo e Netflix (la teen comedy Sex Education), ha tracciato le linee guida di “Intimacy on Set”, affinché ognuno disponga di “regole, confini, linguaggio e comunicazione” atti a inibire abusi, scorciatoie e umiliazioni sotto i riflettori.
Dal canto suo, Alicia Rodis ha co-fondato nel 2016 la Intimacy Directors International, che dal teatro s’è allargata a cinema e televisione. Base a New York, s’è adoperata sulla seconda stagione di The Deuce, nonché sulla serie Watchmen di Damon Lindelof in arrivo, e sul palcoscenico ha persino apparecchiato, a partire dalla Bisbetica domata, un #MeToo Shakespeare.
Da chiarire se sortiranno nudi più consapevoli o solo meno nudi sullo schermo, le nuove politiche per le scene di sesso a Hollywood nell’era #MeToo sono necessarie, superflue o, addirittura, nocive? Il “nudity rider” – normalmente allegato negli Usa al contratto di un attore per disciplinare le scene senza veli – non basta e avanza? E, a maggior tutela delle attrici, la clausola “no-nudity” di Sarah Jessica-Parker per Sex and the City e ora Divorce, l’analogo veto strappato da Emilia Clarke per Game of Thrones e il controllo totale su The Handmaid da parte di Elisabeth Moss non sono forse eccezioni che invalidano queste novelle, intime regole? Sopra tutto, esse sono estendibili alle nostre – il teatro con i sindacati di categoria e Federvivo s’è appena dato un codice di condotta – latitudini?
Per Antonietta De Lillo, regista e consigliere di Women in Film, Tv & Media, “il #MeToo è particolarmente scivoloso: curiosità, morbosità e aneddoti si sprecano, qui si parla di qualcosa già normato dai contratti”. Viceversa, “servono buon senso e buoni comportamenti per far fronte agli abusi, e i giudici siamo noi: non abbiamo bisogno di controllori e specialisti, bensì di autodisciplina”.
Agente tra i più affermati, Valentina Conti scava un solco “tra il nudity rider americano e la discrezionalità, in capo agli attori e a chi li rappresenta, nell’ambito italiano”. Quale caso limite cita lo scandaloso Antichrist, per cui Lars von Trier, “oltre all’abituale accordo di non divulgazione, richiedeva la piena accettazione e la non rinegoziazione del copione: un mio assistito – non vi dirò chi – si vide costretto a rifiutare la parte”. Se oggi i contratti, anche sulla scorta dell’affaire Fausto Brizzi, prevedono il licenziamento in tronco del regista coinvolto in casi di molestie, Conti non raccoglie l’exemplum dell’intimacy coordinator e punta il dito sulla “paranoia e la caccia alle streghe d’Oltreoceano: stanno esagerando”.
Pollice verso anche da Monica Stambrini, regista e già “ragazza del porno”: “Mi stupisce, anzi, no. Anche in ambito queer si sta barattando la libertà con il lavoro basato sul consenso, ma chi decide quale sia una rappresentazione adeguata della sessualità? Se le norme nascono in ambienti tradizionalmente anti-normativi, si va verso la distopia”. Detto che con alcune attrici s’è trovata “di fronte a blocchi, pudori, e dunque alla necessità del compromesso: con Valentina Nappi, invece, non ho avuto limiti”, Stambrini evidenzia il paradosso dell’intimacy coordinator: “Si sessualizza tutto, nel nome del controllo: è come girare con i legali tra i piedi”.