il Fatto Quotidiano, 8 giugno 2019
I nuovissimi mostri
Spunti e appunti per una nuova, grande commedia all’italiana a episodi, nella migliore tradizione de I mostri e I nuovi mostri.
Il sindaco da balcone. Arrestato per corruzione e turbativa d’asta, il sindaco leghista di Legnano Giambattista Fratus è recluso ai domiciliari dal 16 maggio. Non potendo governare con le manette ai polsi, Fratus si dimette, il prefetto lo sospende in base alla legge Severino e commissaria il Comune. Ma il 7 giugno Fratus cambia idea e, mentre il Riesame conferma il suo arresto, ritira le dimissioni e resta sindaco. Vivo compiacimento dalla Lega tutta, a partire dal leader Matteo Salvini: “Conosco Fratus come persona seria, corretta e perbene come Siri, Rixi, Fontana e tanti altri. Se l’ha fatto, vuol dire che si sente assolutamente tranquillo. Fare il sindaco è un mestiere difficile, quindi ha il mio sostegno”. Cioè, con l’aria di fargli un complimento beneaugurante, lo paragona a due leghisti già condannati, l’uno con patteggiamento definitivo per bancarotta fraudolenta e sottrazione fraudolenta di beni al fisco (Siri), l’altro con sentenza di primo grado per peculato (Rixi). Il guaio è che Salvini è pure ministro dell’Interno, superiore del prefetto che ha sospeso il sindaco per legge. Ora Legnano si ritrova con un commissario legittimo e un sindaco abusivo che però si crede ancora sindaco anche perché – aspetto ancor più interessante – ci crede pure Salvini. Ora si procederà così. Per motivi pratici, le riunioni di giunta si terranno alternativamente in Comune sotto la presidenza del commissario e nel giardino di casa Fratus sotto la presidenza del sindaco abusivo che, non potendo uscire, parteciperà ai lavori affacciandosi al balcone o alla finestra.
Tiritiritu? Grande retata in Umbria per concorsi truccati nella Sanità: il 12 aprile arrestati assessori, dirigenti e manager del Pd e indagata la governatrice del Pd Catiuscia Marini (per abuso d’ufficio, rivelazione di segreto d’ufficio, favoreggiamento e falso). Che annuncia subito di non volersi dimettere. Poi il segretario del Pd Nicola Zingaretti la chiama implorando un “gesto di responsabilità”. Allora la Marini si dimette e riunisce il Consiglio regionale, mettendo ai voti le dimissioni. Purtroppo bocciate anche col suo voto. Cioè: prima rassegna le dimissioni nelle sue proprie mani, poi dopo una serrata consultazione con se stessa se le respinge. Zingaretti, quando finalmente riesce a capire l’accaduto, le ritelefona per invocare un secondo “gesto di responsabilità”, possibilmente più responsabile e comprensibile del primo, ma non la trova.
La Marini è ricoverata in ospedale. Di lì annuncia che si ridimetterà eventualmente quando starà meglio. Di solito, per motivi di salute la gente, si dimette: lei invece resta per motivi di salute. Poi si vota: il Pd perde 110 mila voti, in Umbria viene sorpassato dalla Lega e perde pure le Comunali a Perugia. Poi, a danno fatto, il 28 maggio il Consiglio regionale si autoscioglie dopo le dimissioni rassegnate in gran segreto, e stavolta addirittura accolte, dalla Marini. Invece il governatore Pd della Calabria Mario Oliverio, anche lui indagato ma per reati ancor più gravi (corruzione e associazione a delinquere) resta al suo posto. Zingaretti si scorda di chiedergli il “gesto di responsabilità”. Forse pensa che commettere reati più gravi in Calabria sia meno grave che commetterne di meno gravi in Umbria, o che la Calabria non sia in Italia.
I Lotti-zzati. Non bastando la Marini, Zingaretti si ritrova altri due morti in casa: i deputati renziani Luca Lotti e Cosimo Ferri, che incontrano nottetempo il capocorrente togato Luca Palamara e quattro consiglieri del Csm per scegliere il nuovo procuratore di Roma, che sosterrà l’accusa nel processo Consip contro l’imputato Lotti. I quattro si sospendono dal Csm su richiesta del capo dello Stato per aver parlato con Lotti e Ferri. I quali però restano nel Pd, mentre tutti fischiettano e nessuno fa un plissé. Poi il Fatto domanda in prima pagina: “Ma lo sapete che il caso Csm è targato Pd?”. Zingaretti si accorge che Lotti e Ferri sono del suo partito e convoca Lotti per uno stringente interrogatorio. Ma purtroppo sbaglia le domande. Tipo questa, riportata da Repubblica: “Ti chiedo di spiegare il sodalizio con Palamara” (come se il problema dell’imputato Lotti fosse che frequenta magistrati). La risposta di Lotti aggiunge surrealismo a surrealismo, ton sur ton: “Sono accuse infondate e infamanti, non ho commesso reati, chi mi infanga alla fine ne risponderà”. Dal che si deduce che Lotti tutto può sentirsi dire, anche di essere amico di Renzi, ma non di frequentare magistrati: quello sarebbe un reato infamante e partirebbero le querele. Comunque, spiega, quella con Palamara è “un’amicizia nata sul calcio: abbiamo organizzato partite fra la squadra dei parlamentari e quella dei magistrati”. È la vecchia linea Previti che, accusato di pagare mazzette al giudice Squillante, si difendeva con i “tornei di calcetto al circolo Canottieri Lazio”: funziona sempre. I renziani accusano Zingaretti di “dimenticare il garantismo” e di essere “manettaro” perché “non c’è nulla di sconveniente a occuparsi di giustizia”. Manca solo che si parli dei primi caldi estivi, pur di scansare il cuore del problema: due deputati del Pd, di cui un imputato dalla Procura di Roma, che scelgono il nuovo capo della Procura di Roma. Alla fine l’intrepido Zingaretti le canta chiare: “Non ho mai dato solidarietà a Lotti”. E ci mancava pure.
La comica finale. Il vicepresidente renziano del Csm David Ermini, deputato Pd amico di Lotti e Ferri, eletto otto mesi fa dalle correnti dello scandalo (MI e Unicost) e dal laico del Pd con l’astensione di FI, tuona: “Meno potere alle correnti”. Si ride di gusto.