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 2019  giugno 08 Sabato calendario

L’Italia si brucia anche sul petrolio

Tempa Rossa, qualcuno forse se lo ricorderà perché coinvolse ingiustamente l’ex ministro dello Svilluppo Economico Federica Guidi, è il più importante investimento estero in Italia. Esso vale più di due miliardi di euro. Si tratta di un «centro olio»: in buona sostanza quando il petrolio esce dal pozzo, occorre fare una prima lavorazione. È quella che si farà nell’impianto nuovo di pacca di Tempa Rossa. Dopo di che si immette in un megatubo, insomma un oleodotto, che trasporta la preziosa merce in una raffineria, dalla quale appunto provengono i prodotti finiti e raffinati, che gli italiani continuano a consumare in modo sempre crescente.
Tempa Rossa insiste in una regione, la Basilicata, che è, si parva licet, il nostro Texas: il 10 per cento del fabbisogno petrolifero italiano da là arriva. Il resto, e cioè il 90 per cento, lo importiamo da paesi non proprio affidabili. La costruzione di questo impianto è stata piuttosto tribolata, ed usiamo un eufemismo. Tanto che il governo Renzi nel 2015 inserì un codicillo nella finanziaria, con il quale il governo e in particolare il ministero dello Sviluppo Economico, che all’epoca era retto dalla Guidi e oggi da Di Maio, si prendeva la responsabilità delle scelte su opere ritenute strategiche come Tempa Rossa. 
I magistrati di Potenza indagarono l’ex compagno della Guidi perché avrebbe «trafficato con le influenze» cioè le amicizie, cioè la sua compagna, per farsi approvare questo codicillo sblocca opere. Neanche a dire, che la Guidi, sommersa di intercettazioni, si dovette dimettere. E che dopo un anno la stessa accusa, cioè il pm, chiese l’archiviazione.
Perché questo flasback? Semplice. Tempa Rossa è radioattiva, nonostante regali petrolio. C’è una parte dei nostri concittadini e dei nostri rappresentanti che non amano i combustibili fossili. O meglio li amano quando devono rinfrescare la propria stanza o quando guidano la propria berlina, ma li disprezzano quandosi devono sporcare le mani per estrarli.
E arriviamo dunque all’ultimo colpo di scena. Quello di due giorni fa. Il Cipe, il comitato governativo per la programmazione economica, ha deciso che l’impianto non è di interesse pubblico. Ha dunque, di fatto, revocato la possibilità per le società che lo gestiscono di procedere ad espropri per nuovi lavori, derivanti appunto dalla pubblica utilità rappresentata dall’estrazione del petrolio. Per capirci se l’acquedotto pugliese vuole espiantare qualche migliaio di olivi secolari per far passare un tubo può farlo senza tanti complimenti, se invece a Tempa Rossa si volesse espropriare un pezzo di terra da bucare per ottenere petrolio non è piú possibile. La decisione è stata presa in due riunioni a maggio. Secondo fonti interne a Palazzo Chigi, che non siamo riusciti a verificare, l’impulso allo schiaffo a Tempa Rossa sarebbe arrivato dai rappresentanti del gabinetto (non tecnici del ministero dunque) di Di Maio. Proprio il dicastero a cui Renzi aveva affidato l’ultima parola, togliendola a comuni e comitati locali, per sbrigare la pratica. Una beffa. Anche se il più è fatto e tra poco il campo olio dovrebbe partire comunque. Resta il segnale politico fatto passare dai grillini. Da una parte sbloccano i cantieri, vedremo, snellendo le pocedure, affidando la bacchetta magica a dei supercommissari e nel contempo mettono in congelatore il farraginoso codice degli appalti, dall’altra incatenano un cantiere già realizzato e tra poco operativo, obbligandolo a non muovere più un passo.
Un comportamento piuttosto schizofrenico e un segnale a quegli avventurieri stranieri che volessero azzardarsi ad investire in Italia, che da noi, la certezza del diritto è un optional e che come scrive Amélie Nothomb chi entra nel nostro Belpaese deve sempre farlo «con stupore e tremore».