Il Messaggero, 8 giugno 2019
10 giugno 1940, l’entrata in guerra dell’Italia
È giusto che un Paese celebri le ricorrenze festose: la nascita della Repubblica, la Liberazione, e soprattutto la Vittoria del 4 novembre. Ma sarebbe bene che rievocasse, quantomeno per trarne un monito salutare, anche le date disgraziate. Per questo, all’approssimarsi del 10 giugno, è utile e doveroso ricordare la nostra entrata in guerra nel 1940. Tutti infatti sappiamo come sia finita, ma pochi sanno com’era cominciata.
Il 1 settembre 1939 Hitler aveva attaccato la Polonia, e in trenta giorni l’aveva sconfitta e occupata. Francia e Gran Bretagna, che avevano assistito impotenti alla sconfitta dell’alleato, stavano ora aspettando la nuova mossa del Fuhrer.
OFFENSIVA
Questa scattò il 10 maggio 1940, con l’offensiva attraverso le Ardenne. Quella regione ondulata e boscosa, erroneamente considerata impenetrabile, era presidiata da truppe di seconda scelta, male equipaggiate e peggio comandate. Su di loro si scatenarono otto divisioni panzerappoggiate dall’aviazione e seguite dalla fanteria. Le difese furono frantumate, e i carri di Guderian galopparono veloci verso la Manica, tagliando fuori l’intero corpo di spedizione britannico e la parte migliore dell’armata francese. Alla fine del mese, Churchill iniziò la spettacolare evacuazione di Dunkerque, che riportò a casa oltre trecentomila soldati sfilandoli dall’accerchiamento sotto gli occhi dei tedeschi. Dopo una settimana, l’operazione era finita, ma la strada di Parigi era aperta. La Wehrmacht, ripresasi dalla sorpresa della sua stessa vittoria, il 5 giugno iniziò l’offensiva finale contro quanto restava dell’esercito nemico. Fu in questa débacle che Mussolini dichiarò guerra alla Francia e alla Gran Bretagna.
LE TRUPPE
Il Duce, consapevole dell’impreparazione delle nostre truppe, aveva programmato il conflitto non prima del 1943. Ma l’imprevista evoluzione delle operazioni militari lo aveva innervosito ed esaltato. Non sopportando di essere estromesso dal trionfo dell’alleato tedesco, quando Badoglio osservò che i nostri soldati non avevano neanche le camicie, rispose che il problema era politico, non militare, e che la guerra era già conclusa. Poi aggiunse cinicamente che «gli occorrevano alcune migliaia di morti» per sedersi al tavolo della pace. Così, il 10 giugno 1940, apparve al balcone di palazzo Venezia annunciando, con la solita prosopopea rustica e arrogante, «l’ora delle decisioni irrevocabili». Rispolverò il suo linguaggio anarco-socialista esclamando che l’Italia, «proletaria e fascista», scendeva in campo «contro le democrazie plutocratiche e reazionarie» e «contro gli affamatori che detengono il monopolio di tutte le ricchezze della terra», per concludere perentoriamente che quella era «la lotta dei popoli fecondi e giovani contro i popoli isteriliti e volgenti al tramonto». Era come si vede – un misto di ignoranza storica, di incoscienza politica, di stravaganti menzogne e di dissennatezza militare. Ma era soprattutto un gesto di vergognoso sciacallaggio, perché colpiva un paese già sconfitto e praticamente indifeso. L’opinione pubblica mondiale si indignò. Con giusto disprezzo, Roosevelt la definì «Una pugnalata alla schiena».Solo Stalin non protestò affatto, ed anzi si rallegrò. Aveva stipulato l’anno prima con il suo compare nazista il patto per spartirsi la Polonia, e vedeva di buon occhio l’indebolimento delle democrazie capitaliste. I comunisti, anche quelli perseguitati da nazifascisti, si allinearono con il loro capo spirituale. Cambiarono idea solo l’anno successivo, quando Hitler invase l’ Unione Sovietica.
LE ALPI
L’ esercito italiano attaccò quel che restava delle truppe francesi sulle Alpi, e subì il primo avvertimento della sua impreparazione. Benché demoralizzati e inferiori di numero ( il rapporto era di uno a cinque), i francesi resistettero e quasi ci ricacciarono. Uno smacco umiliante che si sarebbe ripetuto poco dopo, con conseguenze ben più tragiche, in Grecia e in Africa, dove le nostre offensive si arenarono subito e la situazione fu risolta dall’intervento dell’ingombrante ma efficiente alleato teutonico.
Il 14 giugno i nazisti entrarono a Parigi, e la Francia chiese l’armistizio. Hitler pretese che fosse firmato nello stesso vagone ferroviario dove, vent’anni prima, la Germania si era arresa agli Alleati occidentali. Tutto il mondo ha visto il dittatore tedesco simulare alcuni passi di giga prima della cerimonia, ed ha ascoltato le arroganti intimazioni di Keitel alla delegazione degli sconfitti. Ma gli italiani non parteciparono all’evento. Su un punto infatti i francesi furono intransigenti: si arrendevano ai vincitori sul campo, non alle fanfaronnades di Mussolini.
IL DISARMO
Quest’ultimo ne uscì ancora una volta malconcio. In un primo tempo aveva preteso l’occupazione dell’intera valle del Rodano ( comprese Tolone e Marsiglia), il disarmo della Corsica, della Tunisia e di Gibuti. Hitler che non aveva alcuna intenzione di farsi scippare la vittoria cui l’Italia non aveva contribuito, lo riportò al suo più realistico ruolo di scodinzolante gregario. Non gli concesse quasi nulla, e l’Italia firmò il 24 Giugno quello che William Shirer definì «un innocuo armistizio con la Francia». Fu il primo dei bocconi amari che il Duce dovette inghiottire: quelli successivi sarebbero stati molto più indigesti.
IL VALORE
Il resto è noto. Le nostre forze armate furono sconfitte dappertutto, non per mancanza di valore ma per carenza di mezzi, di carburante, di strategia e soprattutto di motivazione. I soldati, che si erano battuti eroicamente sul Piave per difendere le proprie terre, non capivano perché dovessero impantanarsi nel fango dei Balcani, morir di caldo nel deserto africano o di freddo nell’ inverno russo, con armi obsolete e le scarpe di cartone.
L’incompetenza dei comandi fece il resto. Ma su tutto, incombeva la stupidità e l’arroganza di Mussolini: due difetti che spesso si accompagnano alla viltà, di cui il Duce diede prova quando, circondato dai partigiani, tentò la fuga travestito da soldato tedesco.
Le democrazie occidentali, che incautamente aveva definito «deboli, decadenti ed imbelli», gli avevano impartito una dura lezione. Purtroppo il conto più salato l’aveva pagato il popolo italiano, che l’aveva così calorosamente applaudito quel maledetto 10 di Giugno.