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 2019  giugno 08 Sabato calendario

Intervista a Fabrizio Plessi

Colpisce in Fabrizio Plessi il dichiarato ottimismo. Sostiene che il pessimismo sia ormai una forma retorica che corrode le nostre esistenze. «Non è con la dilagante sfiducia che miglioreremo il nostro mondo», dice, «e nell’antica querelle tra il bene e il male, tra il paradiso e l’inferno, non è così indispensabile militare o prendere posizione a favore di una delle due parti». Su Paradiso/Inferno Plessi realizzò a Roma un’importante mostra, alle Scuderie del Quirinale nel 2002. A Roma torna in questi giorni, con un nuovo grande allestimento che aprirà il 18 giugno nei sotterranei delle Terme di Caracalla. Il segreto del tempo ha chiamato questo nuovo progetto che coniuga passato e presente, archeologia e tecnica: «Non c’è luogo più potentemente evocativo di quelle terme che nell’Historia Augusta furono definite "le ville della plebe". Ogni giorno dodicimila persone si immergevano in quelle acque calde, fredde o tiepide, tra architetture imponenti. Nel culto del corpo si dava forma allo spettacolo».
L’ennesima declinazione del tuo ottimismo.
«Penso che l’arte possa salvare la vita o quanto meno migliorarla. Vivere nel bello, qualunque cosa intendiamo, è preferibile al brutto e allo squallido».
Vallo a dire alle periferie romane.
«Brodskij definiva la galera "una limitazione dello spazio compensata dall’eccesso di tempo". Fino a quando le periferie saranno dei ghetti, la bruttezza prenderà il sopravvento. Ma anche qui, vedi, possono nascere nuove esperienze estetiche, nuovi linguaggi, nuove forme artistiche che non ti aspetti. L’arte ha questo di interessante: si posa dove vuole».
Tu quando hai deciso che avresti fatto l’artista?
«Non è che l’ho deciso, potrei dirti che è stato sempre meglio che lavorare. I miei volevano che facessi l’avvocato, proseguendo così la professione familiare.
Mio padre stesso non era poi così convinto di quello che faceva».
Ossia?
«Aveva una passione viscerale per il teatro. Sospetto, lui che era un penalista, che immaginasse il tribunale come un palcoscenico su cui recitare. Quando da Reggio Emilia, dove sono nato, ci trasferimmo prima a Treviso e poi a Venezia, scelsi la sola cosa che davvero mi piaceva: l’accademia di Belle Arti».
Venezia è diventata la città più vicina alla filosofia del tuo lavoro.
«Venezia è soprattutto uno stato d’animo. Ho vissuto e insegnato per dieci anni a Colonia. Città efficiente e solida, che mi ha dato la percezione di quanto i tedeschi amino il mio lavoro. Ma non potrei mai immaginarla come una città intrinseca alle mie emozioni. Venezia è stata, se così posso esprimermi, la grammatica che ha sistemato la mia lingua».
Ti riferisci all’impiego dell’acqua?
«È l’elemento vitale, fluido, cangiante, capace, in un certo senso, di adattarsi alle più diverse situazioni. In questi anni si è a lungo parlato di "società liquida", denotando una condizione in cui tutto è modificabile, sfuggente, inclassificabile. Io questa idea l’ho avuta più di quarant’anni fa cercando di coniugarla con gli aspetti avanzati della tecnologia».
Cosa intendi?
«Voglio dire che nell’uso che ho fatto della televisione e dei video era implicita la stessa fluidità. Solo che in questo caso è elettronica. Anche il cinema, una delle altre componenti del mio lavoro, lo si può vedere come flusso continuo di immagini. Non a caso Gilles Deleuze comprese perfettamente la natura del mezzo filmico come imprescindibile dal concetto di movimento. Mi verrebbe voglia di chiamarlo movimento acquatico».
Un tuo film si chiama "Underwater".
«Fu scelto agli inizi degli anni Ottanta per la Mostra del Cinema di Venezia. Credo fosse la prima volta che su un grande schermo si proiettava un video. Volevo dimostrare che tra il piccolo e il grande il confronto era fecondo».
A proposito di schermi come ti è venuta l’idea dei televisori?
«C’era ancora la tv in bianco e nero. Parlo della fine degli anni Sessanta e ho pensato che l’elettrodomestico che allora stava massicciamente entrando nelle case degli italiani potesse anche farsi largo nella visione di un artista».
In che modo?
«Non come contenitore ideologico o di spettacolo, bensì come semplice materiale. Alla stregua del marmo, del legno o dell’acciaio. Ricordi cos’erano i televisori allora? Pesavano fino a mezzo quintale: scatoloni tristi che accendevano o condizionavano la fantasia e i sogni degli italiani. Uno strumento insieme perverso e pedagogico. Pensai all’impatto estraniante che quegli oggetti decontestualizzati, fuori dal tinello o dalla camera da letto, avrebbero avuto sullo spettatore. Quando a una Biennale di Venezia portai un’ottantina di televisori, rimasero per ben dodici giorni accatastati fuori dagli spazi espositivi. Non erano considerati materiali artistici!».
Quale è stato il tuo percorso?
«La mia esperienza d’artista ebbe inizio nel 1962. Per alcuni anni camminai a fianco dell’Arte povera.
Considero Jannis Kounellis, Giuseppe Penone, Mario Merz dei compagni di strada. Non dico che facevamo le stesse cose, ma c’era un’aria di famiglia».
Però l’uso "provocatorio" del televisore sembra rinviare più alla Pop Art che all’Arte povera. Warhol usa per le sue opere il sistema pubblicitario e lo fa agli inizi degli anni Sessanta. Tu in qualche modo adotti il mezzo più popolare e di consumo e ne fai l’emblema del tuo lavoro artistico.
«Gli artisti non sono degli anacoreti in mezzo al deserto. Prendono quello che vedono, e lo trasformano. La società dei consumi si poteva declinare sia con la Zuppa Campbell che con i primi televisori in bianco e nero.
Però Warhol, per quanto innovatore sia stato, non era il mio referente».
Chi lo è stato?
«Un punto clamoroso di rottura e quindi di fascinazione fu per me rappresentato da Robert Rauschenberg che nel 1964 espose alla Biennale di Venezia. Improvvisamente, tutto quanto si produceva in quegli anni, l’astrattismo, il concettualismo e compagnia cantante, apparve vecchio. A me, che ho sempre amato il disegno, appariva fantastico Jim Dine. Vederlo disegnare era straordinario. E poi erano strepitosi gli happening di Claes Oldenburg. Ma chi considero, anzi chi consideriamo un maestro sia io che Bill Viola è Nam June Paik, che è stato un grande sperimentatore del rapporto tra arte e tecnologia. Un fratello maggiore che ci ha aiutati a crescere».
Con Bill Viola in che rapporti sei?
«Buonissimi, siamo amici. Ora non sta bene e la cosa mi angoscia. Lui ha dichiarato che dipinge la televisione, mentre io la scolpisco. Mi pare un bel modo per differenziarci. Sono felice che sia uno dei grandi artisti di questi anni».
Quando sei diventato famoso?
«Non so se in Italia lo sono davvero. Ho avuto riconoscimenti importanti, non c’è dubbio. Ma il mio valore è molto più apprezzato in Germania e negli Stati Uniti. Ho fatto mostre in tutto il mondo, ho esposto in 138 musei. Al Guggenheim, ovunque. Da ultimo al Puskin di Mosca. Trovo strano che nel mio paese ci sia ancora chi storce il naso».
Come lo spieghi?
«Ti racconto una cosa. Per i miei quarant’anni, il giorno del compleanno, non feci che piangere. Avevo un magone tremendo e sai perché? Perché non ero né ricco né famoso. Tu dirai: un artista si può ridurre in questo stato, piangere sui propri fallimenti?».
Dipende dai progetti che aveva.
«Volevo impormi e mostrare il mio valore. La ricchezza è solo uno strumento. A certe condizioni consente di essere liberi di dire: faccio ciò che voglio e non ciò che il mercato richiede».
Ne sei sicuro?
«Certo, tu no?»
Una delle cose che i tuoi detrattori ti rimproverano è che lavori con grandi marchi e griffe di lusso. Mi spieghi cosa c’entra la tua arte?
«È una parte del mio lavoro. Come una committenza giocata alla pari. Do la mia visione artistica e culturale senza interferenze. Quando nel 1987 feci per Rai 1 un programma che si chiamava Immagina, subito cominciarono a dire: Plessi si è venduto alla televisione.
Ogni settimana creavo un’installazione nella quale si svolgevano degli eventi. Il programma era stato progettato da Umberto Eco, Omar Calabrese e Paolo Giaccio. I critici protestarono perché a presentarlo c’era Edwige Fenech. E allora? La verità è che non mi sono mai tirato indietro davanti alle occasioni che reputavo interessanti, fosse cinema, teatro, televisione o musica.
L’importante è la fedeltà al proprio linguaggio».
A proposito di musica ricorre nel tuo lavoro la presenza di Michael Nyman.
«Una delle prime cose che abbiamo fatto insieme fu
Icaro a Bruxelles nel 1989. Dopo di che diventammo amici. Siamo entrambi ansiosi e alla ricerca di ciò che ci può emozionare. Penso che a suo modo sia un grande poeta. Anche in questa nuova mostra a Caracalla il suo apporto è stato fondamentale».
Accennavi ai tuoi tristi quarant’anni, ora che ne hai quasi ottanta come ti senti?
«Il fisico tende un po’ ad abbandonarmi, ma la testa è la stessa di sempre».
Ti sei fatto un’idea della vecchiaia?
«Sei vecchio quando i rimpianti sostituiscono i sogni, devo averlo letto da qualche parte».
Quale è stato il momento magico della tua vita?
«Professionalmente o privatamente?».
Fai parlare l’artista.
«Ci sono tre date: 1985, quando alla rotonda della Besana di Milano esposi quattrocento televisori; 1986, l’invito a rappresentare l’Italia alla Biennale; 1987, Kassel. Quei tre anni hanno cambiato la mia vita».
Immagino in meglio.
«Parlo del riconoscimento, senza il quale resta sempre il dubbio: chi sono veramente?».
Privatamente come sei?
«Ritengo di essere una persona inquieta ma felice, fedele alle persone che amo e che mi sopportano: i figli, mia moglie Carla».
La tua vita privata in che rapporto è con quella pubblica?
«Fai conto che la parte pubblica sia una nave, quella privata è la piscina che le sta dentro. Hanno l’acqua, vanno nella stessa direzione, ma sono chiaramente distinte».
A proposito di navi, sei passato dai video alle barche.
«Nel 2005 ho realizzato Il mare verticale, una scialuppa di acciaio, in piedi come un obelisco, alta 44 metri e posta davanti alla Biennale. L’acqua è qui incorporata dal flusso azzurro dei video».
Oggi una barca è salvezza o precarietà.
«Forse entrambe. Immagino ti riferisca a quanto sta accadendo sul Mediterraneo. Alle tragedie che puntualmente ci vengono riportate».
Come reagisci?
«Non voglio metterci, come si dice, il cappello. È troppo forte quel dolore per essere rappresentato. Voglio dire che in agguato c’è sempre l’eccesso di retorica o di strumentalizzazione».
Come ti definiresti?
«Sono un manierista, un barbaro della tecnologia, un visionario, forse un alchimista. Lavoro con l’acqua, il fuoco, il vento. Le mie opere si servono di questi elementi. Non raccontano storie, trasmettono emozioni».
Tutti vogliono emozionare, colpire, coinvolgere.
Spesso è il linguaggio più facile.
«Dipende da quanto vai a fondo con il lavoro, quanta coerenza possiedi. Non c’è emozione senza regole. Ma le regole da sole non bastano».
Di te colpisce l’autoreferenzialità.
«È la mia vita e la prendo in seria considerazione. Mi piace raccontarmi senza quelle penose e ipocrite esibizioni che accreditano l’idea che o l’artista è maledetto o non è».
E tu non lo sei.
«Non lo sono, anche se devo molto all’arte di Caravaggio. Come tu dici: sono un ottimista».