Robinson, 8 giugno 2019
Bob Dylan e quel tour del 1975
Nel 1975, per Bob Dylan le cose iniziarono ad andare bene. La prima parte del suo show che prendeva il nome di Rolling Thunder Revue ( si potrebbe tradurre un po’ liberamente in “Rombo di tuono show”, tanto per renderne la forza iconoclasta, ndr) fu per lui uno dei migliori momenti mai trascorsi su un palcoscenico in una serie di concerti senza precedenti, che portò uno spettacolo itinerante folle e cosmico in piccoli teatri con un preavviso minimo per il pubblico. Abbandonando il suo solito formato in cui andava a ruota libera, e autoimponendosene uno più rigoroso, Dylan si esibì in alcune delle performance più dinamiche e strabilianti della sua intera carriera, stimolato dagli arrangiamenti elettrizzanti di una band che gli stava dietro alla grande. Quei concerti, ai quali assistemmo dal vivo o che abbiamo visto attraverso l’obbiettivo del fotografo Ken Regan e dei cineasti Dave Meyers e Howard Alk, ci lasciano un’immagine indelebile dell’artista Dylan: un gitano dal volto bianco, con il cappello a tesa larga sormontato da fiori freschi, una sciarpa indiana al collo, il gilet nero indossato su una maglietta psichedelica, che non ha paura di prendere rischi rinnovandosi e dando significato a ogni singola sillaba di ogni parola. Dylan ha sempre affermato che è nei concerti che le sue canzoni vivono e respirano. E qui c’è la prova.
Eppure, verosimilmente sono stati pochi i tour leggendari visti da così poche persone: 31 esibizioni in 23 città, tra il 30 ottobre e l’ 8 dicembre. La seconda metà del tour, che ufficialmente non iniziò prima dell’aprile dell’anno seguente in Florida, fu invece alquanto diversa tranne che nel nome. I molti motivi di quel successo si possono condensare in un semplice fatto: Dylan riprese il pieno controllo della sua arte. Si mise al timone di comando. Era così che voleva. All’epoca era senza manager – chi lavora a percentuale non sempre prende decisioni per ragioni puramente artistiche—, e delegare i vari incarichi ( direzione scenica, direzione musicale, gestione del tour) ad amici e collaboratori fidati gli lasciò ampio margine di manovra. Il format stesso che scelse in parte distolse da lui l’attenzione, obiettivo inseguito da tempo, e il controllo che ebbe sul caos che ne derivò fu totale. Tutti si trovarono in mano una sola tessera del puzzle: soltanto Dylan, l’occhio calmo del ciclone, tenne per sé ed ebbe in mano l’intero puzzle.
L’idea di quel” carrozzone- accozzaglia di gitani”, la sua “vibrazione” da vaudeville e tattiche di guerriglia capaci di fare notizia ( la promozione col passaparola, show improvvisati e biglietterie interne, tutte nuove tendenze di cui sembra che Dylan sia stato una sorta di anticipatore per l’America) nacque in parte dall’insoddisfazione per l’esaltato ma anche estenuante tour dell’anno precedente con The Band, dopo otto anni senza concerti (e soltanto un’esibizione brevissima). Dylan era stato assente dalle scene più dell’intera durata della sua carriera precedente e, poiché il suo ritorno era una faccenda ben più importante della sua performance, il Tour ’74 era diventato più una missione che una serie di concerti. «Non ero a mio agio e non ero contento» ricorda Dylan. «Volevo fare qualcosa di diverso». Per lui fare qualcosa di diverso voleva dire sposare una filosofia e un’estetica completamente nuove, insieme a un nuovo modo di viaggiare e, forse, addirittura un modo completamente diverso di cantare. Bob Dylan non era andato in tour in occasione di
Blood on the Tracks, pubblicato nel gennaio 1975, l’album che lo vide conquistare il titolo di Campione mondiale dei pesi massimi. Sparì invece per sei settimane nel sud della Francia e andò a far visita a David H. Oppenheim (l’autore del dipinto che appare sul retro della copertina di quell’album). Il 24 maggio, in coincidenza con il suo trentaquattresimo compleanno, Dylan andò a un festival a Saintes-Maries de la Mer, dove migliaia di gitani si erano dati appuntamento in pellegrinaggio per venerare la loro santa patrona, Sara la Nera. Lì vide la processione portare una statua di Sara la Nera dalla chiesa al mare. Sempre lì conobbe un uomo con «dodici mogli e cento figli» che si presentò come il Re dei Gitani. E Dylan ne fu ispirato per la prima nuova canzone che gli venne fuori, One More Cup of Coffee, e forse per tutto ciò che sarebbe venuto in seguito.
Dylan era impaziente di partire in tournée con il nuovo materiale. Aveva una visione in mente: un tour che sarebbe andato avanti per sempre. Faceva paragoni con il musical The Fantastiks: «Va in scena off- Broadway da dieci anni, gente… Come mai non ci lasciano fare una cosa del genere?». Fantasticava di potersi «unire al tour per un paio di settimane e poi andarsene», e che qualcun altro potesse prendere il suo posto.
Sarebbe stato l’attrazione principale dello spettacolo, certo, ma non l’unica. E tutto ciò coincideva con la sua ispirazione gitana: nomadi che percorrono strade colpendo il sistema, comparendo senza preavviso in piccole sale, forse in sale appena più grandi in alcune occasioni, giusto per saldare i conti. L’idea non era mai stata quella di arricchirsi.
Un tour di Bob Dylan bastava già da solo a fare notizia in prima pagina e con titoli cubitali, ma il massimo probabilmente si raggiunse con la rimpatriata con Joan Baez, «avvistata» ( questa la parola esatta usata da Dylan) nel tour del 1965 nel Regno Unito. Lui le dette il posto d’onore e un compenso da star che lei ricambiò con esibizioni superlative. Come se questo nuovo Matrimonio Alchimistico tra il Re e la Regina del Folk degli anni Sessanta non fosse stato abbastanza per stuzzicare l’appetito, presto arrivò la notizia di altri amici famosi che avrebbero suonato e cantato in mini-sequenze non programmate: Joni Mitchell, che arrivò a New Haven e non ne ripartì mai; Gordon Lightfoot a Toronto, Arlo Guthrie, Rick Danko, Ronnie Hawkins e Robbie Robertson… al pubblico probabilmente sembrò che fossero il centro del mondo. Fu come avere gli interi anni Sessanta a portata di mano, sotto gli occhi e nel salotto di casa. Leonard Cohen andò al concerto di Montreal, ma non volle suonare per modestia. Altri, come Bruce Springsteen e Patti Smith, vi andarono soltanto per ascoltare e assimilare tutto. Anche Allen Ginsberg si unì, in rappresentanza dell’eredità Beat ma, in modo forse sorprendente, non “urlò”, limitandosi a suonare cembali da dita in diversi finali.
Quello che fu chiaro è che il Rolling Thunder Revue era qualcosa di gran lunga di più delle venti canzoni cantate da Bob Dylan— ma la Revue fu anche un ombrello sotto il quale molti artisti poterono trovare riparo nella tempesta.
All’ultima esibizione, al Madison Square Garden, Bob Dylan annunciò: «Noi siamo i Rolling Thunder Revue e torneremo». A dicembre, quando si ritrovarono, Dylan disse a Sloman: «Questo tour non si dovrà fermare mai».
(Questo testo è tratto dal libretto accluso a “Bob Dylan – The Rolling Thunder Revue. The 1975 Live Recordings”. Traduzione di Anna Bissanti)