Robinson, 8 giugno 2019
L’identità è come il patchwork
Le identità che infuocano la vita politica, con le etichette della nazione, della fede, della razza o della cultura, non sono quello che sembrano. A interrogarle ed esaminarle in profondità invece che blocchi di granito compatti e durissimi si rivelano masse gelatinose e fluide; invece che certezze mostrano ambiguità ed enigmi. Più le scrutiamo da vicino più le vediamo scomporsi in disegni complicati, multicolori simili alle coperte patchwork delle nonne, o ai tessuti «kente», tipici del Ghana, come preferisce dire Anthony K. Appiah che quel paese conosce bene perché è il suo, o meglio uno dei suoi, essendo nato a Londra. Questo filosofo anglo-ghanese, ora newyorkese, cosmopolita, figlio di un avvocato e politico della regione Ashanti nella Costa d’Oro coloniale britannica e di una scrittrice inglese, ha imparato come prima sua lingua il Queen’s English, l’inglese della Regina, quello che si parlava nelle scuole dove lui ha avuto in sorte di crescere. E ancora si porta dietro questa parlata con naturalezza, salvo che non decida di strascicare una pronuncia diversa per non disorientare gli interlocutori.
Questo celebre intellettuale offre già con la storia della sua vita un paradigma eloquente di quel che significa identità multipla. Dalle pagine del suo The Lies That Bind. Rethinking Identity ( Le bugie che legano, ripensare l’identità. Ma l’editore italiano ha preferito un titolo più cattivo, che parla di «menzogne» e «divisioni in tribù» ) scopriamo attraverso una narrativa spettacolare che le identità non sono solo plurali, ma anche cangianti e inventate da chi le abita. E tuttavia potenti, anche se non indiscutibili. Così come Gandhi poteva diventare, a un certo snodo della sua esistenza, invece che il leader dell’indipendenza indiana, un meno famoso avvocato inglese di successo. O come Isaiah Berlin avrebbe potuto diventare, invece che uno storico delle idee a Oxford, un ministro israeliano a Tel Aviv, nello stesso modo Appiah ha trovato la sua strada, invece che nella politica post-coloniale africana o in quella inglese, nel mondo accademico a New York, ma affermandosi anche per le sue virtù di scrittore.
I suoi saggi, e quest’ultimo più degli altri, raccolgono storie che k Il set sostengono teorie attraverso percorsi biografici che sono più eloquenti ed efficaci di tanta scrittura saggistica. Sono sorprendenti le pagine su Italo Svevo, ovvero Aaron Ettore Schmitz, l’autore della Coscienza di Zeno, che creò la sua identità italiana ( e il suo nome) e che preferì «scrivere male in italiano» quando avrebbe potuto «scrivere bene in tedesco» (Umberto Saba); o quelle sul nero Anton Wilhelm Amo, che, nel primo Settecento, per un esperimento razziale, fu portato dal Ghana a Wolfenbüttel, ed educato per farne un filosofo tedesco, con successo; e soprattutto su Michael Young, l’autore novecentesco, cresciuto in una scuola di eccellenza, spesso citato a sproposito, che dedicò i suoi studi e l’impegno politico a scongiurare che la «meritocrazia» diventasse la via per cristallizzare la ereditarietà di una nuova forma, più arrogante di privilegio.
Il nucleo concettuale che sta al centro di questo libro è che il credo, la nazione, il colore della pelle, la classe e la cultura non sono quei cinque cavalieri dell’apocalisse politica che ci figuriamo, e che indichiamo abitualmente come «etichette», o molto di più, che marchiamo a fuoco sulla pelle della storia e degli individui come «identità» indelebili. No, sono cinque aspetti di quel che siamo, e sono per la gran parte una costruzione sociale. Questa fluidificazione non risparmia nessun aspetto dell’identità, a cominciare dal genere: ruoli e preferenze sessuali che sembravano scritti nella biologia si rivelano scritti con lettere confuse, talora mutevoli ed aperti a diverse interpretazioni. Ma l’identità non è solo un vincolo cattivo a una menzogna, è anche fonte di una solidarietà che supera confini: i neri di Nigeria seguirono con una speciale passione le cronache dell’uccisione di Michael Brown da parte di un poliziotto bianco in America; ed è in forte crescita negli stati Uniti il turismo nero in Africa sui luoghi delle antiche deportazioni schiavistiche.
I fondamentalisti di ogni genere, in varie epoche e luoghi, assumono come perenne e indistruttibile quel che si rivela temporaneo e fragile, si richiamano a tradizioni indiscutibili e antenati da onorare seguendone le orme, ma «un giorno anche noi saremo antenati, perché noi non seguiamo semplicemente le tradizioni: le creiamo».