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 2019  giugno 08 Sabato calendario

Quando Stefano Bonaga inventò il web gratis

Colui che ideò a Bologna la prima Rete gratuita a disposizione dei cittadini, possiede un vecchio Nokia tutt’altro che smart, si tiene alla larga dai social e del web dice che è un pharmakon alla greca per sottolinearne il valore duplice di veleno e rimedio al tempo stesso. «Più veleno, oggi» sogghigna Stefano Bonaga, filosofo dalle attitudini multiformi che spaziano dalla teoria politica alla sociologia fino alle basi teoriche della comunicazione.
Dunque Bonaga, com’è nata questa prima Rete al mondo a disposizione dei cittadini di cui ricorre quest’anno il 25esimo anniversario?
«Nei primi anni ‘90, l’allora sindaco di Bologna Walter Vitali, mi offrì la poltrona di assessore alla Cultura, ma io rifiutai e proposi di inventare una nuova delega: l’assessorato all’Innovazione, perché assistevo all’impotenza dei sistemi amministrativi rispetto alle esigenze dei cittadini. Iperbole, acronimo di “Internet per Bologna Emilia”, nasce come un’applicazione della teoria dei sistemi aperti, che spiega come per ridurre la complessità di un ambiente bisogna renderlo più complesso, dunque, aumentandone la selettività».
Come riuscì a costruirla?
«Nel ’93 seppi che il Cineca, un consorzio che raggruppava dodici atenei del Nord, si era collegato con New York via Parigi. Nel frattempo Negroponte nel suo libro Essere digitali (ed. Sperling & Kupfer, 1995) chiamò la Rete nascente una new technology, a me risultava invece un nuovo mondo e se era un mondo doveva poter consentire a tutti di accedervi gratis. Chiesi i soldi all’Europa e partimmo. Il primo account è alla fine del ‘94 grazie anche alla consulenza tecnica di un filosofo dell’intelligenza artificiale, Maurizio Matteuzzi».
Qual era l’obiettivo all’inizio?
«Doveva essere un luogo di cooperazione e di cittadinanza attiva, lo strumento per affrontare la complessità sostituendo le pratiche del consenso con quelle della cooperazione responsabile. Sviluppare l’enorme potenzialità della società al fine del bene comune. Questo perché la delega da sola è insufficiente a governare la complessità. All’interno della società c’è grande intelligenza progettuale e capacità di auto-organizzazione. I nuovi corpi intermedi, partiti o sindacato che sia, dovrebbero ricostruirsi su questa base. Per esempio, non è possibile che migliaia di persone che compongono il mondo del volontariato non abbiano voce mentre può averla uno che con unasemplice tessera assurge a dignità politica».
Come fu accolta l’innovazione dal mondo di sinistra a cui lei appartiene?
«È stata la più grande delusione politica della mia vita. A Bologna Iperbole veniva chiamata “il sarchiapone”, in modo derisorio. Andai a Roma per parlare dell’innovazione a Massimo D’Alema e a Botteghe Oscure incontrai un parlamentare bolognese che mi disse: “ma quale connessione, occupatevi piuttosto di manutenzione”. Poi è arrivato Grillo e s’è preso la Rete come già i socialisti si presero la televisione negli anni ’80».
Proprio Grillo. Ha fatto buon uso della Rete?
«La follia di Grillo è stata credere che la Rete possa autolegittimarsi, ma in realtà è un luogo vuoto. È come un orto che dipende da cosa ci fai, se metti le zucchine o lasci crescere erbacce. Quaranta persone che votano un candidato sindaco non è un giudizio della Rete, ma di quaranta votanti. È la quantità e la qualità di presenze a definire la caratteristica della Rete».
L’impressione è però che lei non riconosca più un suo figlio. È sbagliato?
«Oggi è più veleno che rimedio. La Rete è un fatto irreversibile, ma l’intelligenza calcolante algoritmica sta progressivamente sostituendo la coscienza che significa scelta e responsabilità. Credo che un residuo di coscienza possa mandare all’aria il calcolo algoritmico. Ma ci sono altri effetti conseguenti».
Quindi lungi da lei la Rete?
«La uso il minimo indispensabile e non faccio acquisti. Sono una sorta di “Amish anti-telefonino” e quando invito amici a cena spero che lascino gli apparecchi all’ingresso».