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 2019  giugno 08 Sabato calendario

Gli incroci di Tullio Pericoli

Chi, oltre alle sue inconfondibili «Forme di paesaggi» marchigiani (che sono planati in gran spolvero, al Palazzo dei Capitani della «sua» Ascoli) apprezza i suoi infallibili ritratti di letterati ed intellettuali, sa bene che Tullio Pericoli si rivela non già un sapiente «illustratore» (parola che giustamente aborre) ma un finissimo saggista. Che per esempio, inseguendo le pupille pervinca di Beckett, gli imbarazzi anatomici di Gadda, le elusività sgomente di un Pessoa, penetra e spiega molto di più questi autori, che non un critico prolisso e saccente. 
Che fosse un narratore nato ed invidiabile, lo si poteva già intuire da alcune meditazioni possenti, per esempio dai Pensieri della Mano, oppure quando, apparentemente malvolentieri, si scioglie a raccontare seducente. Non stupisce, dunque, ma letteralmente rapisce, questo brillante firmamento di cammei lampeggianti: intessuto di ricordi vaganti e spesso maliziosi, debitori alla sua riemergente e rapsodica memoria «milanese». Che ha voluto intitolare Incroci: gaddiani «gnommeri» di linee ed intrecci biografici. Intersezioni, termine musiliano. Meteore intenerite d’un rammemorare aforismatico, che nella brevitas consumata da ritrattista perito, hanno una loro forza, trascinante e rapinosa. 
Come un prassinoscopio che ruoti immagini a scatti, tac, ogni scatto ci regala un’illuminazione, un’epifania. Lapilli narrativi, che Pericoli sa infilzare, con l’amo del pescatore esperito di fisionomie - apparentemente svagato ma vigile, quale effettivamente è stato. A partire dall’imprinting scolastico ascolano, prima dell’emigrazione a Milano: con le tasche gonfie di lettere di presentazione d’uno Zavattini materno, i suoi occhiali puntuti e buoni, che osserva quei suoi disegni adolescenti «uno per uno, come se li mangiasse con sempre più voglia». E ogni momento si «girava a guardarmi, quasi volesse controllare le parentele tra i disegni e chi li aveva fatti». «Ormai non potevo più stare nella piccola città di Ascoli, avevo un dovere». In fondo questo zibaldoncino, volutamente frammentato, a nervosi ostacoli biografici, si può leggere anche come un autoironico, ma commosso, Bildungsroman, in formato di deliziose mentine fondenti. Che traccia a sprazzi lo sbarco d’un «provinciale-emigrante», nella Milano di Italo Pietra e di Fusco, di Bocca, Tadini e della complice tribù della Galleria Marconi. Ma soprattutto del neonato Giorno, con il suo lucente ed intimidente palazzo, «che mi apparve come un’astronave» (meneghino-felliniana): «un giornale che in quegli anni splendeva in Italia come il suo grattacielo a Milano». 

Ed eccolo lì, timido ma inscalfibile, con le credenziali di Zavattini in tasca, che apron tutte le porte. Un po’ deluso però, che nessuno giudichi davvero i suoi disegni, che squaderna davanti allo sciamano Fusco, scisso tra le liturgie del Bagutta e le puttane-sciantose degli slabbrati nights di Lambrate. Sbadato, di fronte a quel rotolo di disegni, compressi per il viaggio della speranza: «Gli piacevano? non gli piacevano? altra ansia (…) li aprivo e quelli si richiudevano. Disse solo: “A Zavattini non si può dire di no”». La memoria baluginante di questi haiku, sapientemente lacunosi, funziona infatti così. Per il mago del ritratto aforismatico bastano pochi tratti, rari punti di colore. L’orina in bonaccia desolata, «stridentemente gialla», della birra moribonda di Bocca, che alla soglia della morte non può più concedersi alle delizie del vino. La «strana risata che Facchinelli buttava lì anche quando non c’entrava, mostrando dei denti nati in posizioni innaturali». La perfidia bonaria di Montale, che accetta d’esser traghettato in 500, raggomitolandosi, tutto sghembo, «cercando di dissimulare la fatica», per lo sterminato tragitto Corriere-Via Bigli. O la curva della pancia opima di Eco, che «fa il morto», beato, nella sua piscina, e che ora egli ritrova nella bara, sfiorata di malincuore, dopo «il viale alberato di libri», della sua casa a lutto. «Vedevo emergere metà della faccia, metà della pancia e la punta delle scarpe». 
Umorista céco, di una tragica finzione, qual è la vita. Ogni ritratto, un tesoretto di dettagli, che vanta, ogni volta incastonata, una meditazione. Da antologia. «Ci sono parole che sembrano soffrire di agorafobia, devono essere pronunciate in spazi piccolissimi e raccolti, dentro contenitori silenziosi e minimi». Come quel gessetto geniale, che attraversa l’aula, gettato da un professore strampalato: «il formicolio dei frammenti, stelle, comete e particelle vaganti, resi lucenti dai raggi di sole, vagavano morbidi in quello spazio sconvolto e stupito». Ogni tanto, «come se si fosse rotto lo specchio incorniciato della memoria», la «cinecamera» della scrittura si volge, a svelare gli occhi stupefatti di questo Harold Lloyd o di Little Nemo, sgranati di sorprese. Sempre in imbarazzo, timido e disorientato, ma con una proterva smania di carpire. Che parte con la sua macchinetta per bussare, con pietas, alla porta della follia di Mastronardi, a Vigevano. Che insegue la mozartiana pancetta e i passettini d’automa di Melotti, tallonato: «Signor Melotti, si fermi!», che si fa crescendo rossiniano. Per scoprire poi ch’è sordo come una campana. A «capire» che il mondo si scompone in due tipi d’ascensore. Quello pomposo di Reich-Ranicki, che gli fa sapere, in incomprensibile tedesco: «La sto personalmente accompagnando all’ascensore». E quella penitenziale di Testori, agli stremi, che si trascina a fatica nel labirinto ospedaliero, con i «laser galleggianti» delle sue perforanti pupille, consunte dal morbo. «Entravano con me nell’ascensore, mi seguivano in strada fino alla macchina, rimanevano nello specchietto retrovisore, più forti dei fari delle auto che incrociavo ritornando a Milano».