il venerdì, 7 giugno 2019
Intervista a Elisabetta Sgarbi
Elisabetta Sgarbi è la signora dell’editoria italiana, manager e artista, cineasta, curatrice di mostre e ideatrice della Milanesiana, festival multidisciplinare come lei, giunto al ventesimo anno. Nell’entusiasmo sanguigno che mette in tutto quello che fa lascia intravedere le sue origini ferraresi e il metodo solido degli studi di farmacia; figlia lei stessa di farmacisti colti, amanti dei libri e dell’arte, cresciuta con il fratello Vittorio nella casa, racconta, «dove Ariosto ha scritto la prima edizione dell’Orlando Furioso». Per oltre vent’anni alla guida di Bompiani, nel 2015, quando all’orizzonte si profilava la vendita al gruppo Mondadori, con Umberto Eco e altri fuoriusciti ha fondato La Nave di Teseo, dove ha ribadito la sua idea di editoria: il rapporto totale, viscerale con gli autori.
È per questo che in tanti l’hanno seguita nella nuova avventura?
«Io non tollero la parola marchio, per me la casa editrice è la casa degli autori, che sono le principali risorse. Tutti quelli che hanno condiviso la mia vita editoriale mi hanno seguita: penso a Michel Houellebecq, a Michael Cunningham, a Petros Markaris, a Amin Maalouf, e poi gli italiani, Sandro Veronesi, Susanna Tamaro, Andrea De Carlo, mio fratello...».
Che tipo di autore è Vittorio?
«Complicato, esigentissimo. Il suo sguardo ci segnala autori sconosciuti, ma è anche il racconto di uno scrittore, le sue sono pagine di arte e letteratura».
Perdona le infedeltà degli autori o se le lega al dito?
«Sono una persona fedele e preferisco gli autori fedeli, come è stato Eco, che disse: io non sono in vendita né voglio essere comprato, quindi bisogna fondare una casa editrice con molta convinzione».
Come succede che una farmacista diventa un editore di successo?
«Mi stavo specializzando in farmacologia e Toni Cibotto, che era di Rovigo, mi chiamò nella giuria popolare del premio Estense. Era molto amico di Cesare De Michelis (lo storico patron della Marsilio, ndr) e andammo a trovarlo. Cominciai a respirare il profumo delle case editrici. Collaboravo anche con lo Studio Tesi di Pordenone e a un premio conobbi Mario Andreose, che cercava un addetto stampa per la Bompiani. Mi chiamò a Milano per un colloquio, però non ci andai».
Come mai?
«Ero aggrovigliata, avevo insicurezze, venivo dal mondo f. Ma Andreose telefonò a casa mia e disse a mia madre: ma le sembra buona educazione quella di sua figlia, che issa un appuntamento e poi non viene? Mi vergognai così tanto che ci andai e fui presa. In breve però mi feci spostare alla redazione, volevo capire come si facevano i libri».
Un tantino ribelle.
«Appena laureata avevo detto ai miei: non pensiate che venga a fare il tirocinio da voi. Andai in una farmacia di Tamara, vicino a Ferrara. Dove tra l’altro è nato un poeta che amo moltissimo, Corrado Govoni, che vorrei ristampare».
Poi i suoi si sono rassegnati?
«Dissi: quello che dovevo fare l’ho fatto, adesso basta. Avevo sofferto molto, mi sembrava di essere tagliata fuori dal bello, dal giusto».
Oggi è un editore indipendente. Cosa cambia rispetto a prima?
«Io ho sempre esercitato, anche in maniera trasgressiva, la mia indipendenza. Voglio dire che si deve credere in quello che si fa anche se un pezzo della struttura dove si lavora non ci crede».
Che dimensione ha oggi La Nave di Teseo?
«Stiamo andando avanti con fermezza: abbiamo già pubblicato 394 titoli. La nostra quota di mercato è intorno all’1,5%, e in continua crescita. Nel 2017 abbiamo acquisito Baldini+Castoldi, con il suo ricco catalogo e la testata Linus, che ha ricominciato a distribuire 10-12 mila copie. Del gruppo fanno parte anche Oblomov, specializzata in graphic novel, e una storica editrice come La Tartaruga. È tutto un iorire di scuole di scrittura, editoria, lettura.
Ma come si sceglie veramente il libro giusto?
«Vivo molto di intuizioni e vado in una direzione che mi eccede, come diceva Carmelo Bene: qualcosa ci eccede ed è fuori di noi! Ci sono delle scommesse che l’editore deve fare. Magari sbaglia, però bisogna saperle fare».
Mi racconti una sua scommessa.
«L’Alchimista di Paulo Coelho, nel 1995, quando ancora non era un caso internazionale. A Chicago, la sua agente Monica Antunes me ne parlò con tale convinzione che chiesi alla forza vendita una tiratura di 50 mila copie. Ne vendemmo in breve oltre il milione. Oppure quando con Enrico Ghezzi inventammo la collana AsSaggi: il primo titolo, Il razzismo spiegato a mia figlia di Tahar Ben Jelloun vendette 300 mila copie. È accaduto anche con Joël Dicker: l’ho comprato che non era ancora uscito in Francia».
Una scommessa attuale?
«Il sussurro del mondo di Richard Powers: sarà alla Milanesiana. Non sapevamo che avrebbe vinto il Pulitzer. Però è la seconda volta, è successo anche l’anno scorso con Andrew Greer. Tra poco pubblicheremo il romanzo del poeta vietnamita Ocean Vuong».
In Italia si continua a leggere poco: come se ne esce?
«Da noi il mercato è volto alla concentrazione dei grandi gruppi. In Francia e in Germania si salvaguardano le librerie indipendenti, c’è uno statuto, mentre qui acquisisci il diritto d’autore e te lo vendi nelle tue catene, è incredibile. Ma chi fa da volano agli autori che non sono già consacrati e consolidati? I librai!».
Quest’anno la Milanesiana fa vent’anni. Ci avrebbe creduto?
«Un traguardo importante, ma anche un po’ di malinconia per le persone che non ci sono più, a partire da Eco, con cui sceglievo tutti i temi della manifestazione. O Sergio Claudio Perroni, traduttore e scrittore straordinario, che ha deciso di lasciarci. Ci sono stati momenti bellissimi, come le lezioni di Eco al Teatro dal Verme con oltre mille persone. O la prima edizione, nel 2000, con Riccardo Muti che premia Carmelo Bene. L’organizzazione del festival richiede molta tenacia, molto carattere, quindi ben venga la mia laurea in farmacia. E pensare a quanto l’ho maledetta...».