Corriere della Sera, 7 giugno 2019
Non c’è scuola senza autorità
Ho appena letto ai miei bambini due brevi brani dell’ultimo libro di Ernesto Galli della Loggia L’aula vuota (Marsilio), dedicato alla scuola. La sera prima avevamo avuto a cena un loro amichetto, e tra maschietti si lamentavano del tempo perso in classe e sui compiti, che vorrebbero utilizzato per cose davvero piacevoli e interessanti. Ho provato a intervenire in difesa del valore della conoscenza. Ma non trovavo le parole giuste. Ci sono nel libro di Galli della Loggia: «La cultura alla fine significa semplicemente la possibilità per ognuno di noi di uscire dalla propria particolarità e di mettersi in relazione con il mondo passato e presente, con tutti i suoi pensieri, i suoi protagonisti, e i suoi fatti, raggiungendo così una pienezza di vita altrimenti impossibile». E poi: «I libri, le idee, possono costituire una ragione di vita, danno significato all’esistenza, e dunque ciò che si fa a scuola, ciò che la scuola è, (…) non costituisce un obbligo burocratico da assolvere più o meno volenterosamente, bensì l’occasione per diventare più capaci di capire il mondo, più consapevolmente umani. Di diventare dei noi stessi migliori». («Conosci te stesso, sii tu. Diventa te stesso, avendolo appreso», scriveva Pindaro).
I miei figli hanno ascoltato senza interrompere, o andarsene, che è già un successo. Ho l’impressione che l’argomento della bellezza abbia sui bambini un effetto maggiore di quello dell’utilità. Ho pensato allora che questo libro di Galli della Loggia, prima ancora di essere un formidabile pamphlet di denuncia dei motivi di decadenza della scuola italiana, è una dolcissima e talvolta perfino commossa dichiarazione d’amore per il sapere.
A certo punto lo stesso autore lo dichiara: «Adesso ho più chiaro perché sto scrivendo questo libro… per rendere in qualche modo omaggio postumo a mia nonna, e con lei alle migliaia di maestre che, grazie alla propria fatica, giorno dopo giorno, hanno visto accendersi in tanti dei loro piccoli scolari la luce dell’interesse e dell’intelligenza, la passione di apprendere, il piacere della lettura, il gusto del sapere». La nonna «si chiamava Nerina e insegnava a Napoli, nei Quartieri Spagnoli, allora come oggi tra le parti più povere e derelitte della città. Quando finalmente andò in pensione, nel 1949, le fu consegnato dai colleghi un diploma debitamente incorniciato che oggi è su una parete del mio studio, dove in una prosa ingenuamente aulica che sa ancora di Ottocento si legge: “Educatrice modello, che ha dedicato le sue migliori energie alla formazione dei figli del popolo”».
Se indugio in questi ricordi di una stagione che fu, è per una ragione. La polemica di Galli della Loggia è principalmente contro la «fine del passato», la «gigantesca frattura culturale che si è verificata a partire dagli anni Sessanta». In una scuola moderna, quanto deve contare il passato, si chiede l’autore? «È impossibile immaginare l’istruzione senza collegarla a una forma di trasmissione di valori, di princìpi e di conoscenze, che non abbiano in qualche modo lo sguardo rivolto all’indietro: che cos’è questa lingua che parlo? Che cosa c’è stato prima di me? Che cos’è questo Paese e questo Stato di cui sono cittadino? Che rapporto ha con il mondo?». Spezzandosi la continuità culturale, diviene assai concreto il pericolo – segnalato da Hannah Arendt – «che i nuovi venuti, la generazione più giovane, non sapendo nulla del mondo in cui arrivano lo mettano a soqquadro, lo lascino andare in rovina, e per pura e semplice incoscienza lo distruggano». E invece da decenni la scuola italiana «si sforza spasmodicamente di essere aggiornata e moderna, ma non si accorge che ormai quella modernità che insegue è solo un passato svanito per sempre».
Questa consapevolezza non può essere scambiata per «nostalgia del passato». Chi si mostra scettico verso la riformite che ha assalito la scuola italiana (l’«autonomia», il «curricolo», il «portfolio delle competenze», la «cittadinanza», il «learning by doing», il «Pof», il «progetto», l’«inclusione» ecc. ecc.) «può benissimo farlo non perché sia contrario per principio a ogni novità o a ogni riforma (cioè perché è un conservatore incallito), ma molto più semplicemente perché pensa che sarebbe stata meglio una riforma diversa».
L’altro principio in difesa del quale si leva la penna di Galli della Loggia è quello di autorità. In un suo recente articolo sul «Corriere», che aveva avuto ampia diffusione e sollevato molte polemiche, tra i vari consigli rivolti al ministro dell’Istruzione c’era anche il ripristino della predella sotto la cattedra dei professori. Misura che avrebbe il significato di «indicare con la limpida chiarezza del simbolo che il rapporto pedagogico non può implicare alcuna forma di eguaglianza tra docente e allievo». Per questa frase Galli della Loggia è stato accusato di una visione «arcaica», o «autoritaria», o peggio ancora «classista». Ma l’autore ritiene che «la dimensione dell’autorità costituisca un che di ineliminabile dall’orizzonte della scuola. È l’autorità del sapere accumulato nel corso del tempo, incarnato in una persona che trasmette quello stesso sapere a coloro che si affacciano sulla vita. Chi sa e chi non sa, chi insegna e chi apprende, non sono sullo stesso piano». E su questo è davvero difficile dargli torto. A meno di non concludere che, se il giovane non ha bisogno dell’esperienza accumulata, se è solo un «mero discendente» e non un «erede», come scriveva Ortega y Gasset, la stessa scuola sia inutile.
Galli della Loggia risale dunque alle radici del pensiero che legittima «le mille forme di compiacenza, l’arrendevolezza, l’ideologia dominante nell’organizzazione scolastica», per cui i giovani hanno sempre ragione. E le trova correttamente in Rousseau, esplicitate nel romanzo pedagogico Emilio, o dell’educazione, il rifiuto della mediazione culturale con cui la Società può corrompere il bambino allontanandolo dallo stato di Natura, in cui conta solo la «spontaneità»: «Non gli lasciate nemmeno immaginare che voi pretendete di avere qualche autorità su di lui, non c’è soggezione più perfetta di quella che conserva l’apparenza della libertà». Principio di ogni palingenesi, di ogni pretesa di costruire l’uomo nuovo, dal giacobinismo alla piattaforma omonima. È da lì, «dalla vette utopiche del proto-romanticismo rousseauiano, che nasce il filone dell’anti-culturalismo che da alcuni decenni dilaga anche nel nostro sistema scolastico». La «scuola della riforma», conclude l’autore, che alla fine del percorso fa i conti anche con l’ingombrante eredità della pedagogia di don Milani, ha inteso affermare una sorta di utopia della «liberazione», nella quale l’istruzione «alla fine è null’altro che l’occasione per costruire una comunità di liberi ed eguali intenta ad auto-educarsi». Ad essa Galli della Loggia propone di sostituirne un’altra: «L’utopia della emancipazione, che si proponga di rendere i giovani innanzitutto culturalmente formati, e quindi autonomi e responsabili di sé, premessa per divenire anche liberi e socialmente più uguali possibile. Il tempo è rimasto poco, ma il destino della nostra scuola è ancora nelle nostre mani».