ItaliaOggi, 7 giugno 2019
Antisemitismo nel calcio tedesco
C’è una squadra che gioca sempre fuori casa, anche quando scende in campo nel suo stadio, il Makkabi Berlin. Sempre e ovunque gli spettatori insultano i giocatori, urlano di volerli gasare, e inneggiano a Hitler. Quelli del Makkabi ci sono abituati, ma non è una scusante. Il club fu fondato nel 1898, nel 1930 arrivò a contare oltre 40 mila soci. Fu vietato dai nazisti come tutte le altre società sportive ebraiche, rinacque nel 1970 nella Berlino divisa dal Muro, oggi conta 500 soci, e gioca in una lega cittadina.Non tutti i giocatori sono ebrei, mi racconta Ruggero, il patron del Cafè Italia, con una effe, ritrovo degli italiani che vogliono seguire a Berlino in tv le nostre partite. Ci giocava pure lui, finché non si fece male a un ginocchio, e dovette rinunciare a una promettente carriera. Il Makkabi accoglie chiunque, da qualsiasi parte arrivi. Gli stadi si sono trasformati in una zona libera dove tutto è ammesso, non solo in Germania, razzismo e violenza. Non ho mai capito perché se insulto un vigile che mi multa passo, giustamente, un guaio. E invece gli posso rompere il naso durante la partita, e non essere perseguito.
Nel 2006, durante i campionati del mondo in Germania, mi veniva di continuo chiesto alla radio e in tv se non ero preoccupato per le bandiere tedesche che sventolano negli stadi e per strada, sulle auto ed esposte sui balconi. Fino a quel momento non si osava. Un inquietante ritorno al nazionalismo? Rispondevo che non mi preoccupavo perché loro, i tedeschi, si preoccupavano, mentre in Italia alle partite si sventolavano bandiere con la croce uncinata, e tutti fingevano di non vederle. Paolo Di Canio, giocatore della Lazio, sempre nel 2006 a Livorno si esibì nel saluto fascista, e poi si limitò a chiedere scusa. In Germania avrebbe rischiato di essere sospeso a vita.
Ma tredici anni dopo la situazione è cambiata, come denuncia Florian Schubert nel saggio Antisemitismus im Fußball – Tradition und Tabubruch (Wallstein Verlag, 488 pag., 39,90 euro), non occorre tradurre il titolo. Per strada gli ebrei che portano la kippah rischiano di venire insultati e picchiati, le aggressioni antisemite aumentano, ma spesso i responsabili sono immigrati islamici. Allo stadio, i colpevoli sono sempre tedeschi, i profughi non vanno a vedere le partite. Ormai, scrive Schubert, è normale durante una partita sentire urlare contro gli avversari «Jude, Jude», il termine ebreo è un insulto, come «sporco negro». Oppure si intona Deutschland den Deutschen, la Germania per i tedeschi, come durante il Terzo Reich. Ma fino a pochi anni fa non si osava, e i vicini sugli spalti avrebbero reagito. Oggi è ridiventato normale? I dirigenti della Federazione Calcio, la Dfb, sono responsabili e complici, denuncia Schubert (il libro è la sua tesi di dottorato, che è obbligatorio venga pubblicata).
Antisemitismo non solo nei campetti di periferia, ma anche nella Bundesliga, la Serie A, e negli incontri della nazionale. Nel 1994 fu organizzata una partita amichevole contro l’Inghilterra, ad Amburgo, e fu scelta la data del 20 aprile, compleanno di Hitler. Ci furono proteste, e Amburgo, città antinazista anche negli anni trenta, finì per rinunciare. Berlino si dichiarò disposta a ospitare l’incontro, ma a questo punto dissero di no gli inglesi. Il portavoce della Federazione, Wolfgang Niersbach, reagì in modo inconsulto, denunciando «un intollerabile complotto degli ebrei…». Secondo lui, la stampa americana che aveva denunciato il fatto «era per l’80% in mano agli ebrei». Nel 2005, a una conferenza internazionale ad Amsterdam sul tema «antisemitismo nello sport», la Dfb non ritenne di dover partecipare. E ancora oggi si trascura di sensibilizzare i club, e le associazioni dei tifosi delle diverse squadre.
Lo scorso 8 marzo, durante l’incontro tra Union Berlin e Ingolstatd, in serie B, i tifosi berlinesi per 90 minuti hanno insultato il mediano avversario Almog Cohen, «uno sporco ebreo». Un episodio che non si trova nel libro, che era già in corso di stampa.