Avvenire, 7 giugno 2019
Vita e radiocronache di Emanuele Dotto
Prima elementare, il tema assegnato dalla maestra era il classico: “Cosa vorresti fare da grande?”. E io nello svolgimento senza esitazioni attaccai sicuro: da grande voglio fare il radiocronista sportivo. Quando si dice la vocazione no?...». Vocazione ereditata dallo sportivissimo zio, «don Lino Dotto, parroco a Lerma (Alessandria), il paese che mi ha dato i natali e dove sono cresciuto assieme a mio fratello Matteo (bravissimo giornalista sportivo Mediaset) e Moana Pozzi...». Storie da strapaese in presa diretta e in collegamento da Genova con Emanuele Dotto, la più raffinata e colta delle voci del radiocronismo firmato “Mamma Rai”. L’ultima voce “umana” e sapienziale della trasmissione cult di Radio 1 Tutto il calcio minuto per minuto, a 66 anni, e nel 60° del programma, ha appena salutato i gentili radioascoltatori. «Dal 21 giugno sarò in pensione». Con il Giro d’Italia n. 102, «il mio ventesimo da giornalista al seguito della carovana rosa», si è chiusa l’onoratissima carriera Rai in cui Dotto ha prestato voce, passione, competenza d’altri tempi («da “uomo datato”, scrivete pure», dice ridendo) e un pezzo della sua bella anima in stereofonia. Ultimo collegamento: arrivo rosa a Milano bagnato da una pioggia di lacrime di commozione versate dalla squadra di “Rai Giro” composta da Manuel Codignoni, Antonello Brughini, Andrea Fusco e Silvio Martinello. «Non lo conoscevo Martinello prima del Giro... mi ha confessato che non aveva pianto neanche al suo matrimonio e neppure alla nascita dei figli», racconta con l’inconfondibile timbro del “Dotto volante” congedatosi così: «Quella che ho tentato di fare è stata l’ultima radiocronaca dopo 39 anni e mezzo in Rai. Ringrazio Roberto Bortoluzzi, Mario Martegani, Cesare Viazzi, Ezio Luzzi, Massimo De Luca e Riccardo Cucchi. Un po’ di emozione scusate, ma ci può stare». Tutto è concesso a questo signore del microfono che ha allietato le nostre domeniche sportive, raccontandoci con stile, sempre sobrio e pacato, undici Olimpiadi, sette europei e otto mondiali di calcio. «Ma anche cinque tornei di Wimbledon e altrettante edizioni del Roland Garros, tre stagioni in tv a Quelli che il calcio... (Rai 2) chiamato da Luca e Paolo, e come recitava un vecchio slogan Rai “di tutto e di più”». Un aedo itinerante, un pensatore eclettico, approdato al giornalismo passando dalla fucina genovese del Corriere Mercantile («Adesso non c’è più... ci entrai nel 1972 occupandomi di politica e di Brigate Rosse, ma anche di sport») e formatosi al Giornale alla grande scuola dell’ “arcitaliano” Indro Montanelli: «Metereopatico geniale, mi ha fatto conoscere e apprezzare un altro arcitaliano come lui, Giuseppe Prezzolini. Montanelli era un uomo rigoroso, mangiava poco e parlava con la stessa parsimonia ma quando apriva bocca era fulminante: “Anni fa – disse – i soldi rubacchiati si chiamavano bustarelle adesso tangenti, è più signorile”. Oppure “Pannella indossa un vestito all’inglese il cui rovescio è meglio del dritto”». Nel 1980, l’anno di nascita della terza rete, l’ingresso in Rai, redazione regionale di Genova. «Entrai in quota liberale, leggasi ministro Alfredo Biondi. Allora funzionava così, prendevano uno di centro, uno di sinistra e uno di estrema sinistra... Prima radiocronaca? Si aprì un varco per una partita di basket e mi ci infilai. Massimo De Luca mi chiese se mi andava di seguire una diretta a Torino. Presi un treno al volo, era il 15 ottobre dell’80, Berloni Torino-Scavolini Pesaro finì 86-83, con 33 punti di Dalipagic», ricorda con tono stentoreo e la solita dovizia di dettagli appresi nell’altra grande accademia di Tutto il calcio minuto per minuto. «Una squadra unica e irripetibile con i “Coppi e Bartali” della radio: Enrico Ameri e Sandro Ciotti. Ameri che parlava più veloce della palla mi ha insegnato la “ritmica”. Ciotti è stato il mio maestro di “dialettica” al quale ho cercato di rifarmi ascoltando commenti tipo: “Giornata luminosa come il sorriso di Dorian Gray con ventilazione inapprezzabile”... E poi Roberto Bortoluzzi, l’uomo più cortese che abbia mai conosciuto, chiamava “signor Cirillo” anche il fattorino che gli portava i risultati della schedina del Totocalcio. Romantico ma anche un giudice inflessibile il caro Roberto: per essere ammessi a Tutto il calcio ti sottoponeva a un esame rigorosissimo: voce, dizione, proprietà di linguaggio. Bocciò diversi futuri direttori Rai».
Dotto promosso a pieni voti e pronto per il «finto debutto»: Milan-Cavese, big-match di serie B. «Era il 7 novembre del 1982 e mentre mangiavo a casa dei miei suoceri sento alla radio: “Colleghiamoci con San Siro, a te Emanuele Dotto”. Peccato che in cabina c’era solo il tecnico, a me nessuno aveva comunicato che prendevo servizio da quella domenica della “Real Cavese” che sbancava San Siro. E la seconda partita fu altrettanto surreale: Varese-Lazio 11, per la cronaca: gol di Tonetto e pareggio laziale di Vagheggi, ma si giocò nella nebbia e la ricostruzione del tabellino fu possibile solo grazie alla generosa collaborazione del giovane segretario del Varese... l’allora riccioluto Beppe Marotta. Da quel giorno Beppe è diventato uno dei miei più cari amici, sono il padrino di battesimo dei suoi due gemelli». Un calcio più umano e più vero rispetto a quello odierno «l’insostenibile calcio spezzatino», violento però quanto quello degli anni ’80-’90. «Al Del Duca per Ascoli-Inter, il 20 ottobre 1988, ho dovuto raccontare la morte del tifoso ascolano Nazzareno Filippini. E sempre in quello stadio fui testimone del ferimento di una tifosa della Samp colpita da un “missile” sparato da un marchingegno entrato in Curva con estrema facilità quando il sottoscritto, inviato Rai ma con carta d’identità scaduta, per poter entrare in tribuna stampa venne sottoposto al terzo grado dalla polizia». Ma il momento più buio, da ultimo stadio lo visse a Marassi. «Il 29 gennaio 1995 diedi l’annuncio in diretta: Genoa-Milan non si può disputare perché negli scontri tra le opposte tifoserie, pare – dissi –, sia rimasto ucciso il tifoso genoano Claudio Spagnolo, detto “Spagna”... Nei bagni di Marassi fui testimone diretto del cambio di vestiti da parte di quei milanisti figli di papà (“La banda del Barbour”) che avevano colpito a morte il povero Spagnolo. Alla sera il presidente della Figc Antonio Matarrese si scagliò contro di me, e non fu il solo... Enzo Biagi prese pubblicamente le mie difese dicendo: “Dotto ha fatto solo che bene a dare la notizia del ragazzo morto allo stadio”» Brevi attimi di foschia, interruzione temporanea per pioggia con Dotto che al microfono per un Samp-Juve annuncia serafico: «Gli operai stanno carotando il terreno perché l’acqua residua possa essere allontanata dal terreno di gara». Attenzione certosina per il particolare che nasce lontano dagli stadi e affonda radici nella sua cultura umanistica («sono laureato in Storia Medioevale») condivisa con un’altra voce storica di Tutto il calcio, Claudio Ferretti. «Degno figlio d’arte del grande Mario Ferretti, è stato Claudio a farmi scoprire Caravaggio. Grazie al ciclismo sono arrivato a Bruges per deliziare lo sguardo dinanzi alla Madonna col bambino di Michelangelo. Ad Amsterdam per la Ronda di Notte di Rembrandt sono andato in visita sei volte fino a meritarmi la tessera onoraria di “amico del Rijksmuseum”». In radiocronaca diretta Dotto ha commentato i capolavori di Diego Armando Maradona «il più grande di tutti e il più “pericoloso” degli argentini» e quelli di Zico «il“Pelè bianco”, quando giocava a Udine gli chiesi la cosa che più l’aveva colpito dell’Italia e lui rispose spiazzandomi: “Il fatto che voi mangiate delle banane che spacciate per quelle 10 e lode... Da noi in Brasile – disse – se quelle banane le dessimo ai maiali ci morderebbero». «L’intelligenza superiore» degli uomini di campo l’ha riscontrata «negli “argentini buoni”, Balbo e Batistuta e in Boskov: Vujadin era laureato in Storia e Geografia, un grande dispensatore di saggezza. Come del resto Osvaldo Bagnoli che proviene dalla Milano operaia della Bovisa e non ha studiato ma è un uomo che ha saputo insegnare tanto, anche fuori dal campo... Un’ironia tagliente quella di Bagnoli, una per tutte? Ottavi di finale di Coppa dei Campioni (6 novembre 1985), gara a porte chiuse al Comunale di Torino, il suo Verona eliminato scandalosamente dalla Juventus. Alla fine Volpati dalla rabbia spacca una vetrata lanciando una scarpa, entra la polizia nello spogliatoio del Verona e Bagnoli impassibile indica agli agenti: “Se state cercando i ladri sono di là”». La «sfortuna» ha scippato la gloria e poi la vita di Marco Pantani: l’ammutinamento del “Pirata” iniziò a Madonna di Campiglio. «Era il 5 giugno 1999, il mio primo Giro in radiocronaca... Ho chiuso raccontando la favola in rosa di Richard Carapaz, ecuadoriano (una delle “tre glorie” del suo Paese con il tennista Andrès Gomez e il marciatore olimpico Jefferson Perez) che vive a Tulcán sulle Ande a 3mila metri di altitudine... Un bel posto dove magari andare ora che avrò del tempo libero. Anche se il mio sogno sarebbe volare a Macao, l’enclave portoghese in mezzo alla Cina, una regione piena di chiese cristiane... Ho sempre sperato che la Rai mi mandasse laggiù anche per vedere il circuito dove un tempo si tenevano i GP di Formula 2. Ma va bene così, la Rai mi ha dato la possibilità di viaggiare gratis per il mondo coronando quel sogno che era già scritto, lì sul tema delle elementari... Il futuro? Mi sento come il barone Uzeda de Il Vicerè di De Roberto che quando diventa senatore dice: “Ora che abbiamo fatto l’Italia facciamo gli affari nostri”. Linea allo studio».