Lei scrive: «Cambiate il linguaggio e avrete iniziato a cambiare la realtà». Davvero le parole hanno tanto potere?
«Chi corrompe il linguaggio può corrompere qualunque cosa. Non dare alla violenza il suo nome, permette ai violenti di cavarsela. Usare termini vaghi per i cambiamenti climatici fa sì che vengano messi in dubbio al di là dei dati scientifici. Dire cose velenose avvelena anche quel che non lo è. Per cambiare le cose dobbiamo partire anche dal nostro vocabolario».
Nel 2017, dopo l’avvento di Trump con i suoi "fatti alternativi", l’Economist ha definito la nostra epoca «era della Post-verità»…
«Trump è il miglior esempio di politico che maltratta il linguaggio. Usa parole che non significano niente e ciò che per lui è vero oggi non lo sarà domani. Ma Trump è il risultato, non la causa della perdita di senso di cui soffriamo. A eroderlo hanno pensato i giornali scandalistici di Rupert Murdoch, le semplificazioni della conservatrice Fox News. Le falsità messe sui social dai russi di Vladimir Putin. E da voi in Italia le tv di Silvio Berlusconi».
Esempi concreti?
«L’amministrazione Bush definì le torture "tecniche potenziate di interrogatorio" e perfino il New York Times accettò la definizione, smettendo di riconoscere l’illegalità delle pratiche. Oggi anche l’affondo contro l’aborto di certi stati Usa si fa manipolando la lingua. L’"Heartbeat bill", "legge del battito cardiaco", vieta di abortire dopo la sesta settimana dando l’idea che il cuore pulsi e il feto sia già una persona. Non è così: il cuore non è ancora formato, ma il linguaggio vago permette di abusare del proprio potere senza assumersene la responsabilità».
Che cosa possiamo fare?
«La ricerca dell’accuratezza è responsabilità di tutti. Inutile lamentarsi di politici disonesti se poi si guarda in maniera pigra alla realtà o si vota informandosi sui social e non ci si fa coinvolgere in prima persona. La politica è al nostro servizio ma costruire il mondo in cui viviamo è responsabilità comune. Poi, certo, la scuola dovrebbe insegnare a pensare criticamente e a verificare le fonti. I media dovrebbero contestualizzare i fatti per far capire da dove vengono i problemi. E tutti dovremmo conoscere di più la Storia».
Una materia che in Italia è stata cancellata dalla prova scritta della maturità, proprio mentre anche altrove assistiamo a distorsioni, riscritture, mistificazioni. Chi ha paura della lezione del passato?
«Chi spinge falsità d’ogni genere. Ma più che sotto attacco trovo che la Storia è ormai una sorta di giardino abbandonato, trascurato proprio da coloro che dovrebbero trarne giovamento: i cittadini. Conoscere il passato fa capire come funzionano le cose e come cambiarle. E che i diritti di cui godiamo sono frutto di decenni di lotte. La gente è troppo assorbita dall’eterno presente dei social, ma chi dimentica rischia di tornare indietro».
Non vigiliamo abbastanza?
«La Storia è una mappa per navigare la realtà, mi è difficile capire chi pensa di poterne fare a meno. Ma bisogna farla vivere nel presente. Negli Stati Uniti sta accadendo: si è reagito all’autoritarismo, al riemergere di pulsioni suprematiste e razziste, chiedendo di rendere giustizia al lato giusto della Storia e pretendendo l’abbattimento delle statue di schiavisti e sopraffattori per onorare invece chi sosteneva i diritti civili e delle donne».
Ecco, le donne: il movimento #MeToo ha contribuito a restituire forza alle loro parole?
«Il #MeToo ha fatto in modo che venissero ascoltate dai media, dalla giustizia. Ma non ci sarebbe stato quel movimento senza i precedenti 40 anni di battaglie femministe e il cambiamento culturale che ha portato sempre più donne in posizioni influenti in ambiti come giustizia, media, politica. È questa presenza ad aver determinato il cambiamento in cui è fiorito il #MeToo».
Negli Stati Uniti sempre più donne prendono la strada della politica: una di loro, nel 2020, entrerà alla Casa Bianca?
«Mi piace Elizabeth Warren. Chiama le cose con il loro nome, non ha paura delle grandi corporation e ha un ottimo piano sul clima. Ma contro Trump voterò chiunque, anche una scarpa vecchia».
In America lei ha appena pubblicato una favola, "Cinderella Liberator". Anche Cenerentola ha bisogno di parlare più chiaro?
«Sono partita da una vecchia immagine dove Cenerentola è con la fata mentre trasforma la zucca. Mi sono detta: "Ecco di cosa parla la favola. Di trasformazione". Quando fu scritta per una ragazza povera il matrimonio era la sola speranza di futuro. Oggi non è più così e dunque il potere trasformativo della fata diventa il potere di aiutare ciascuno a trovare la sua strada. Cenerentola viene liberata dalla sua condizione di schiava bambina: ma anche le sorellastre, gli animali e perfino il principe hanno bisogno di essere liberati. Alla fine vivono tutti felici, contenti: e nessuno si sposa. Anche questo è un modo per chiamare le cose col loro nome: dicendo alle bambine che la libertà va costruita, partendo dalle proprie vocazioni».