Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2019  giugno 07 Venerdì calendario

Come ha fatto Noa a morire di fame?

ARNHEM (OLANDA) — Ma com’è morta Noa Pothoven? Tre giorni fa, suo padre Frans ha dichiarato che la giovane ha smesso di nutrirsi venerdì scorso e che domenica è entrata in coma dopo aver assunto la terapia palliativa, per spegnersi poco dopo circondata dai suoi cari, nel letto d’ospedale sistemato nel salone di casa. In realtà, non si conosce la dinamica delle ultime ore della diciassettenne olandese, così come si ignora quanto “compiacenti” siano stati medici che l’hanno assistita fino alla fine. Né si sa quanto la giovane abbia sofferto, e fino a quando è stata consapevole che di lì a poco sarebbe deceduta. È inoltre lecito chiedersi se per morire di denutrizione tre giorni siano tanti o pochi, poiché nella letteratura medica si parla di casi in cui persone sono sopravvissute anche diverse settimane senza toccare cibo. «È vero, Noa ha resistito meno del consueto perché normalmente una donna della sua età può resistere a un digiuno completo molto più a lungo. Nel suo caso, tuttavia, c’era una differenza sostanziale, ossia il suo stato di salute verosimilmente molto compromesso», dice Boris van de Laar, medico rianimatore nella clinica universitaria della vicina città di Nijmegen. «I due medici che l’assistevano le hanno somministrato farmaci per renderle il trapasso meno doloroso: antidolorifici, e sicuramente anche qualche antidepressivo. Anche perché è dopo due giorni di digiuno che si comincia a soffrire i cosiddetti “morsi della fame”. È solo alla seconda settimana di digiuno che iniziano i danni permanenti perché, una volta finite tutte le scorte, il nostro corpo comincia a nutrirsi di sé stesso, dagli organi interni alle proteine dei muscoli, in una sorta di necessaria autofagia. La terapia palliativa è stata quindi necessaria sebbene tutta questa vicenda mi sembra davvero molto dolorosa perché il nostro compito di medici non è quello di aiutare a morire ma quello di aiutare a guarire».
Anche secondo Geerd Smits, del quotidiano locale De Gerdenlander che più di ogni altro ha seguito questa vicenda, Noa è stata “aiutata” a morire. «Ed è verosimile che per farla soffrire di meno le abbiano anche accelerato la morte, come capita aumentando le dosi di morfina ai malati terminali. E poi l’organismo di Noa era molto indebolito non solo dai digiuni pregressi e quindi dalla sua anoressia, ma anche dal fatto che aveva deciso da tempo di suicidarsi senza assumere né cibo né acqua. Ed era già da marzo che mangiava e beveva il meno possibile». Il suo ultimo, ferale digiuno dunque era cominciato ben prima di dieci giorni fa. Noa aveva cominciato a morire mesi fa.
Eppure nella maggior parte delle foto pubblicate su Internet, la ragazza non appare neanche sottopeso. «Sono tutte vecchie foto. Bisognava vederla recentemente per capire i disastrosi danni della malattia che l’affliggeva. Noa era diventata l’ombra di se stessa», aggiunge Smits. Ieri intanto, in una giornata fredda e ventosa, s’è svolto il suo composto funerale. Nella piccola folla di parenti e amici, spiccava la folta schiera di impiegati e redattori dell’editore Boeskout, con cui Noa ha pubblicato l’anno scorso la sua premiatissima autobiografia Vincere o imparare. Nei brevi ricordi commemorativi, nessuno s’è soffermato né sulla sua malattia né sulla fine a cui questa l’ha portata, esaltando piuttosto la straordinaria combattività della ragazza. Non è mai stata pronunciata la parola “suicidio”, diventata tabù anche per chi le ha consentito di suicidarsi, per poi aiutarla a porre fine ai suoi giorni nel modo meno straziante possibile.
Fatto sta che il suo suicidio per denutrizione, sia pure assistito da medici, nulla ha a che vedere con l’eutanasia. Noa ha scelto di porre fine ai suoi giorni probabilmente con l’unico mezzo che aveva a disposizione, che la sua annosa anoressia avrebbe inoltre facilitato. Il destino s’era comunque accanito contro di lei, facendole incontrare quand’era ancora bambina a poi appena adolescente degli orchi per ben tre volte. A lungo, non ha avuto il coraggio di parlarne con nessuno, neanche con l’amata madre. L’anno scorso, nella sua autobiografia ha raccontato di «ladri che sono entrati dentro di lei e che le hanno rubato la gioia di vivere». Tanto da finire con l’identificare come nocivo o velenoso qualsiasi cosa penetrasse nel suo organismo, a cominciare ovviamente dal cibo. Le due molestie sessuali a 11 e a 14 anni le hanno provocato, assieme alla depressione e allo stress post-traumatico, una grave anoressia. È anche quella che ha finito per uccidere Noa.