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 2019  giugno 07 Venerdì calendario

Il diario segreto del marine

«Seppellire i morti, alcuni dei quali avevano galleggiato per giorni nel mare lurido, era un vero calvario. Guardare quei corpi maciullati, gonfi e verdi per le vesciche provocate dall’acqua salata, gli occhi ancora aperti e i piedi tre volte più grossi del normale, era una vista che nessuno di noi dimenticherà mai; per non parlare della puzza». 
Queste frasi sono tratte dal diario che William Svrluga, marinaio americano assegnato ad una nave per la caccia ai sottomarini, aveva scritto dopo lo sbarco in Normandia. Per oltre mezzo secolo è rimasto segreto, fino a quando il figlio lo ha trovato in un antro della sua casa. Ora il nipote Barry, giornalista del Washington Post, lo ha pubblicato, per raccontare una storia che serve insieme a capire il significato di quella impresa, e la tragedia spesso nascosta vissuta da quelle persone.
Bill era arrivato a Plymouth il 19 aprile del 1944, a bordo della USS PC-568. Aveva 21 anni e sua moglie Ruth era incinta del primo figlio: «Finora solo manovre, ripetute fino a quando ce le sognavamo la notte. Abbiamo costruito le nostre aspettative a livelli tali, che nulla sembra soddisfarci». Il suo sbarco era cominciato con oltre un mese di anticipo, perché la PC-568 aveva ricevuto l’incarico di trasportare spie e materiali sulle coste francesi, per preparare l’invasione: «Sembrava fantastico come ogni notte compievamo le nostre missioni così vicino al nemico, spesso sotto al suo naso. Dio o la fortuna dovevano essere con noi, perché tante altre navi del nostro squadrone non erano mai tornate indietro».
Dopo 31 missioni, era arrivato l’ordine del D-Day: «In qualche modo, sapevamo che sarebbe stato il giorno più importante della nostra vita». Mentre attraversava la Manica, con migliaia di altre navi, Bill aveva pensato alla moglie: «Prego che se mi succederà qualcosa, non lo sappia fino a quando nostro figlio sarà nato». Il suo compito era pericoloso: «Piazzare le boe davanti alla spiaggia, per guidare i mezzi da sbarco. E poi attirare il fuoco del nemico, per distrarlo. L’invasione dell’Europa era cominciata, per noi, alle 2 del mattino. All’alba poi si era scatenato l’inferno. Alle 6,30 la prima ondata di truppe aveva toccato la spiaggia. Li ho visti cadere, morti e feriti». Per tre giorni «avevamo soccorso i feriti, caricato le armi, sparato, seppellito i morti, finché certe volte speravi che il prossimo colpo fosse stato inteso per te». Bill aveva dormito la prima volta dopo 92 ore di combattimento: «Era il freddo ponte della nave, ma è stato il sonno più dolce della mia vita».
Il 21 giugno un aereo tedesco abbattuto si era schiantato sul vano motori della PC-568, uccidendo sei compagni di Bill: «Per la prima volta avevamo seppellito i nostri morti». Il 29 giugno, «avevamo colpito una mina, dieci miglia al largo di Le Havre. L’esplosione aveva fatto tremare la faccia della terra. Io e altri quattro uomini fummo scaraventati in acqua. Poco resta da dire dei sei compagni più vicini al punto dello scoppio, perché nessuna traccia o parte dei loro corpi è stata mai trovata». In quelle stesse ore, Ruth metteva al mondo il primo figlio di Bill: «È stata una coincidenza? Oppure la fede? Ora voglio solo andare da loro». Prima del ritorno di Bill, Ruth avrà un’altra figlia da un altro uomo. Ma questa è un’altra storia, di quelle che solo la follia della guerra riesce a inventare. 
Rientrato a casa, Bill aveva nascosto il diario e seppellito dentro di sé la carneficina vissuta. Niente di strano, per un’era in cui non sapevamo neanche cosa fosse il post traumatic stress disorder. A noi ora resta da porci due domande: primo, se oggi saremmo capaci di sopportare gli stessi sacrifici; secondo, se saremo abbastanza intelligenti da evitare che diventi necessario.