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 2019  giugno 06 Giovedì calendario

Sul nuovo show del Cirque du Sole

Un clown immagina il proprio funerale. Ma il clima è quello di un grande carnevale, ci sono sì gli angeli custodi che osservano attenti ma al tragico si affianca il grottesco, la magia della perfezione sposa il fascino dell’imperfezione. Un protagonista fragile e gentile, un’atmosfera che ricorda da vicino quelle felliniane. L’ispirazione di Corteo, lo spettacolo con cui il Cirque du Soleil sarà in Italia a settembre, è proprio quella, I clowns di Fellini, viaggio nella memoria di un bimbo che amava il circo.
Al circo come fosse il teatro, a teatro come fosse il circo. È il corto circuito culturale ed emotivo cui sempre più spesso ci sottopongono gli spettacoli del Cirque. E del resto, da quando lo fondò in Canada ormai 35 anni fa, l’imprenditore Guy Laliberté ha sempre più spesso puntato a coinvolgere nell’idea del circo liberato dagli animali anche personalità del mondo del teatro tradizionale, registi che fossero piuttosto concentrati sulla forza della parola e sull’attore, sul lavoro del corpo, sull’esercizio fisico al limite dell’acrobazia. Ecco allora l’italo-belga Franco Dragone chiamato a dirigere Saltimbanco e Alegria negli anni Novanta e, nel primo decennio del Duemila, l’arrivo prima del canadese Robert Lepage, coinvolto per Kà e Totem, e poi dello svizzero Daniele Finzi Pasca chiamato per Corteo, forse lo spettacolo di maggior successo del Cirque du Soleil, visto finora da quasi 9 milioni di spettatori e in tournée in Italia dopo l’estate e il debutto al Pala Alpitour di Torino il 26 settembre.
Tutti uomini di teatro innamorati del circo come il fondatore, Guy Laliberté, un ex mangiafuoco e artista di strada divenuto poi uno dei più ricchi imprenditori al mondo. Uomo di scena anche Daniele Finzi Pasca, nato a Lugano 55 anni fa: «Sono innanzitutto un uomo di teatro» dice il regista svizzero, «e vengo dalla tradizione dei clown che hanno l’abitudine di assumersi la responsabilità di un intero progetto. Dario Fo, che scriveva e dirigeva, disegnava anche le scene e i costumi, o Roberto Benigni, tutti sono stati creatori a tutto tondo, Charlie Chaplin scriveva le musiche o almeno le melodie, poi qualcuno le orchestrava per lui».
Finzi Pasca è dunque all’incrocio esatto tra teatro e arte circense. Prima ginnasta, poi clown del circo svizzero Nock, quindi attore, infine regista: «Da ragazzo facevo ginnastica artistica, normale dunque che il mio approccio teatrale fosse fisico. Fin dall’esordio, nella stessa compagnia nella quale opero ancora dopo 36 anni». Teatro fisico e antropologico che non poteva non iniziare nel segno di Jerzy Grotowski, teorico del teatro povero e di una rivoluzione nella formazione dell’attore: «Ci ritrovammo 25 anni fa convocati da lui a Pontedera insieme ad altre tre compagnie simili alla nostra» ricorda Finzi Pasca, «al cospetto di un teatro fisico e con un’attenzione al mondo dell’antropologia teatrale. Grotowski voleva capire cosa stessimo combinando. Si condivideva, oltre all’idea del teatro povero, la preparazione fisica dell’attore votata quasi al sacrificio, all’empatia con il pubblico, quel lavoro sugli attori che abbiamo poi portato al teatro del Cirque».
Un’idea che qualcuno presto comincia a definire “Teatro della carezza”, in grado di trasformare chi lo pratica e allo stesso tempo con l’ambizione di toccare nel profondo chi assiste: «C’è un teatro solipsista che dialoga all’interno del personaggio e si disinteressa di quanto avviene in chi gli sta di fronte, magari gli è utile o magari no», osserva Finzi Pasca. «C’è poi un teatro di clownerie che ha bisogno della reazione del prossimo per capire se spingendo il tragico, esasperandolo, questo diventi ancora più tragico o tragicomico, se possa cioè scatenare reazioni contrastanti, da una parte far ridere ma dall’altra far riconoscere a ognuno la propria fragilità. Tutto ciò che abbiamo fatto parte dall’idea che il teatro può curare».
Strano partire dalla clownerie e ritrovarsi al cospetto di un teatro da zone di guerra: «Un mio vecchio progetto è stato il motivo del mio incontro con il Cirque. Durante la guerra tra Etiopia ed Eritrea ci chiesero di andare nei villaggi distrutti dal conflitto per portare storie che pacificassero. Storie per curare. Nacque il mio monologo Icaro : una stanza d’ospedale in cui un attore coinvolgeva un paziente in una storia. Al festival dei clown di Milano me ne chiesero un’edizione per un pubblico più vasto: ogni sera sceglievo uno spettatore per raccontargli questa avventura in cui uno insegna all’altro come resistere o fuggire dalla malattia. Era un esperimento ma finì in un festival organizzato dall’associazione dei critici teatrali in Uruguay: quell’anno lo videro in 500 ma cominciò a partire dappertutto. Anche Guy Laliberté vide Icaro e mi chiamò al Cirque: voleva quella cosa lì ma in grande». Dal teatro dell’uomo a una produzione da 40 milioni di dollari: «Ero in Messico, Laliberté mi chiese di incontrarci a Las Vegas, arrivai con l’idea di un clown che immagina il proprio funerale: è un sogno o è realtà? Guy mi disse: “Perfetto, lo vedo già”». Un funerale al circo, come ne I clowns di Fellini: «Certo, vengo dallo stesso mondo, la stessa nostalgia».