la Repubblica, 6 giugno 2019
Viaggio nell’inferno di Noa
ARNHEM (OLANDA) — «Non riusciamo a parlare con nessuno perché sopraffatti dal dolore». È una voce femminile che risponde al citofono dell’appartamento dove domenica scorsa s’è spenta Noa Pothoven, in un quartiere malconcio di Arhnem, città di 150mila abitanti a pochi chilometri dal confine tedesco. La voce è quella della sorella o forse quella della madre della giovane che qui s’è lasciata morire per denutrizione dopo un calvario di violenza e malattia durato anni. Sono le sei del pomeriggio, e nell’edificio popolare che ospita la famiglia in lutto c’è un via vai di bambini e adulti in un melting pot di razze e colori, tutti indifferenti perché ignari della tragedia che s’è consumata dietro la porta dell’appartamento 299 di una strada che si pronuncia come uno starnuto.
A poche centinaia di metri incontriamo padre Albert, pastore del tempio protestante del quartiere. Lui non ha saputo di Noa né dai giornali né dai tg olandesi, che hanno ignorato la notizia, bensì dalla madre di un’amica della giovane. «Oggi tutti credono che la vita nel dolore e la sofferenza non valga la pena di essere vissuta, ma è un’idea sbagliata. È quest’idea che ha favorito il voto della legge sull’eutanasia nei Paesi Bassi». Già, ma a quanto pare a Noa nessuno ha somministrato un cocktail di barbiturici e farmaci letali, anche perché lo scorso dicembre, i medici dell’Aia ai quali s’era rivolta per entrare in una clinica che amministra la “dolce morte” le avevano negato l’accesso alla struttura. La storia di questa diciassettenne la cui voglia di morire è stata più forte di quella di vivere è ben più amara e complessa.
Cerchiamo di ricostruirla assieme a Henk van Gelder, cronista del quotidiano locale De Gerdenlander che l’ha incontrata più d’una volta a dicembre e che ne conserva il ricordo di una ragazza intelligente e combattiva, ma tormentata da una profonda sofferenza psicologica. Sofferenza che ha una doppia origine: le molestie sessuali a 11 e 12 anni e lo stupro subìto a 14, a lungo tenuto segreto e il cui ricordo le aveva reso la vita «pesante come un macigno», come scrive nella sua autobiografia “Vincere o imparare”. C’erano giorni in cui faceva fatica a parlare, «e perfino a respirare», confessa Noa.
Lo scorso febbraio, trova finalmente il coraggio di andare a denunciare i suoi carnefici, i due uomini che tre anni fa, non lontano da casa sua, l’hanno aggredita e violentata. «Ma davanti ai poliziotti ammutolisce. Le parole non le escono di bocca. E non riesce a formulare la denuncia. I due sono ancora in libertà e temo che lo rimarranno a lungo», dice van Gelder. Alla mamma spiega che le facevano paura le divise degli agenti, come l’anno prima l’avevano spaventata le toghe del tribunale di Arnhen il giorno che, dopo i suoi ultimi tentativi di suicidio, i giudici la costrinsero a sottoporsi a un trattamento in un centro specializzato a 50 chilometri da casa, lontana dai suoi amorevoli genitori. Per sei mesi sarà internata in «quell’inferno», al solo scopo di impedire che si togliesse la vita, trascurando le sue altre gravi patologie, anoressia, disturbo da stress post-traumatico e depressione che la stavano uccidendo. «Mi sentivo criminale, io che non ho mai rubato neanche una caramella», dirà Noa. «Non voglio più finire in cella di isolamento».
Gli ultimi anni sono puntellati da frequenti ricoveri in ospedale, da nutrizione forzata e da infinite sedute di psicoterapia con dosi da cavallo di tranquillanti e anti-depressivi. È lei stessa a descrivere «umilianti le misure coercitive» alle quali è sottoposta.
Dice ancora il giornalista olandese: «Dopo venti soggiorni in centri di ricovero, la madre non sa più che cosa fare. Cerca ogni tipo di terapia che possa aiutare la figlia senza mai perdere la speranza che questa veda finalmente un raggio di luce, magari innamorandosi di un ragazzo o trovando un lavoro che l’appaghi». Nel frattempo Noa ha smesso di andare a scuola: è troppo debilitata. «La madre è consapevole che ci sia sempre meno tempo per salvare sua figlia, e alla fine vorrebbe trovare una struttura dove le facciano degli elettrochoc».
A dicembre, senza dire nulla ai suoi genitori, Noa contatta la clinica dell’Aia per chiedere l’eutanasia. «Ma le rispondono che è troppo giovane e che il suo cervello deve ancora svilupparsi. Prima di poter prendere una tale decisione deve aspettare di aver compiuto almeno 21 anni. Noa è disperata. Mi dice che non ce la può fare a resistere ancora quattro anni perché soffre troppo, perché in ogni istante della sua vita rivive la paura provata durante lo stupro e perché dentro di lei sono entrati dei ladri che le hanno rubato la gioia di vivere». Sarà adesso un’ispezione sanitaria lanciata dal ministero della Salute a verificare se è necessario aprire un’indagine sul caso. «L’ispezione non riguarda l’eutanasia, ma intende accertare il tipo di cure ricevute da Noa e se ci sia stato qualche errore nei trattamenti somministrati», ha detto un portavoce. Le sue precarie condizioni di salute fanno pensare che domenica scorsa sia morta di fame e di sete. E dire che nella lista delle cose da fare prima di morire, il solo desiderio che non aveva potuto esaudire era proprio quello di mangiare del cioccolato bianco. In compenso Noa era riuscita a guidare un motorino, a fumare una sigaretta e a bersi un’intera bottiglia di birra. Dei primati, che però non sono bastati a darle la forza di restare in vita.