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 2019  giugno 06 Giovedì calendario

Biografia di Enrico Montesano

Enrico Montesano, nato a Roma il 7 giugno 1945 (74 anni). Attore. Comico. Cantante. Conduttore. Sceneggiatore. «Sudo, mi cambio, corro in scena, prendo freddo, non mi risparmio. Il teatro è fatica. Se è fatto bene, con sentimento, energia e voglia, il teatro lo paghi. Però c’è uno scopo. Una passione. Magari fatico con la gente io. Ma il pubblico lo adoro» • «Sono l’erede di una dinastia di artisti. I miei nonni facevano teatro: quello paterno era direttore d’orchestra e dirigeva l’operetta, Il paese dei campanelli, Cin Ci La, mia nonna faceva l’attrice e quando smise di esibirsi nelle operette iniziò con il cinema, tanto è vero che prese addirittura un “gomito” di Oscar, interpretando la mamma di Marcello Mastroianni in Divorzio all’italiana. Possiamo anche aggiungere una zia pianista e un bisnonno musicista. Il nonno di mia madre, Giuseppe Castagnetta di Genova, era un attore, come pure la mia bisnonna Giulia» (a Roberta Beta). «Quand’ero piccolo, mia madre ricordava a mio padre di stare calmo: papà Armando e zio Beniamino suonavano la fisarmonica, suonavano Rosamunda e Giovinezza. E non era proprio il caso, nel 1948, 1949, fare Giovinezza d’estate con le finestre aperte, con tutti i vicini che sentivano. Mia madre, oltretutto, era figlia di un tipografo dell’Unità! Il 25 aprile e il 1° maggio passavamo davanti alla sede del Pci e c’erano tutte le bandiere rosse, un’aria di festa. Noi, niente: mio padre ci faceva allungare il passo e guardare per terra. Per dispetto non mi piacevano neanche le fave col pecorino. Come per spirito di contraddizione, con tutti i miei cugini che andavano a vedere la Roma, sono diventato della Lazio» (a Maria Pia Fusco). «“Mia madre Iolanda si ammalò nel ’53. Un tumore al seno. Le cure erano difficili, e papà, che per aiutarla si era indebitato in ogni modo, portò me e mio fratello da sua madre. La mia se ne andò che avevo 8 anni. Un trauma che mi ha segnato. Da piccolo, in collegio, mi ero scoperto buffone per difendermi”. Faceva il buffone? “Per strappare una risata, avere un po’ di calore ed essere accettato dagli altri. Li facevo ridere e compensavo malinconia e solitudine. Sono diventato comico per disperazione, ma non sono comico io. Non sono buffo. Benigni è buffo”» (Malcom Pagani). «Ho perso mia madre troppo presto. […] Un ragazzino ha bisogno che la mamma lo saluti la notte prima di addormentarsi e al mattino quando si sveglia. Le cose che disturbano gli adolescenti sono le stesse che fino a qualche anno prima li fortificavano» (a Paola Polidoro). «Io ho iniziato da ragazzino a “fare le voci” e le imitazioni, in collegio ho continuato con le prime recite e tutto il resto è venuto dopo il diploma di geometra, perché papà non poteva mandarmi all’università e pensò di sostenere la mia passione per il disegno invitandomi a fare l’istituto tecnico per geometri, a mio parere un corso di studi che rappresenta la negazione per chi ama disegnare a mano libera». «Non appena mi diplomo geometra, compero il giornale dei concorsi pubblici e mi fiondo su quello che mi pare più abbordabile. Concorso per 38 posti di lavoro al catasto. Siamo nel 1965. Mi presento la mattina al palazzo degli esami in viale Trastevere, e già a vedere l’aula piena zeppa mi assale lo sgomento. Poi vengo a sapere che ci siamo presentati in 2.500. Ma che ci fa Roma con 2.500 geometri, ché c’è anche la crisi dell’edilizia? Mi siedo, danno il tema della prova, sul calcolo di un peso su un piano inclinato… una diavoleria del genere. Mi alzo, consegno il foglio e riconquisto la libertà. Catasto adieu! Di quei 38 posti, figurati se ce n’era uno per me! […] Quindi? Arrangiarsi! Dovevo cercarmi un’attività nel privato perché stavo nel mio, essendo io privato di tutto o quasi. Nel frattempo continuo a studiare canto, recitazione, ballo… Mi perfeziono nelle imitazioni e vado in giro per farmi conoscere, con la segreta speranza di accontentare i nonni e trovare nel frattempo anche un lavoro serio. I miei nonni, da consumati artisti che sapevano delle difficoltà del mestiere, mi ripetevano sempre: “Trovati un lavoro serio!”. Dicevano così, un lavoro serio, inconsciamente considerando il nostro lavoro una cosa futile! Ma volevo unire il futile al dilettevole. […] Il colpo da maestro, lo assesto a una festa di piazza a Marino, vicino a Roma, durante la quale conosco il sindaco, che è un ingegnere. Al termine della mia esibizione, il sindaco si intrattiene cordialmente con me e mi dimostra sincera simpatia, ed è a quel punto che piazzo l’affondo. Gli dico che sono geometra e sono alla disperata ricerca di un lavoro serio, per aiutare i miei nonni! Se non altro, psicologicamente, farli stare tranquilli. Decide di prendermi nel suo studio per disegnare. “Lunedì vieni a via Ancona al mio studio, e vediamo”, mi dice. La settimana dopo sono assunto come geometra disegnatore a 500 lire al giorno: ne spendo 200 per fare 4 volte su e giù col tram, altre 100 per il panino, 50 per il caffè, 50 per il giornale, 50 per 5 nazionali col filtro. Mi avanzano 50 lire al giorno, che metto da parte. Non ha cominciato così anche la Lagarde? Cosa volere di più dalla vita a 20 anni? E libero dal catasto? Così, durante la settimana faccio il geometra e il fine settimana faccio l’attore-imitatore. L’ingegnere, ovviamente, conosce bene quella mia vocazione, e quindi mi dà perfino dei permessi, quando mi servono. Per la stessa ragione, l’ingegnere non prende male le mie dimissioni, che arrivano nel momento in cui, facendo l’attore, inizio a guadagnare in una serata tanto quanto guadagno come geometra in una settimana». «È stato un cammino lento, passo dopo passo, fino all’avverarsi del mio sogno di fare televisione nel 1968, naturalmente dopo aver fatto tante serate nei teatrini di Roma: ai miei tempi si faceva il teatro cabaret. Avevamo il pubblico a mezzo metro in quegli spazi piccoli, e proprio quel pubblico ha rappresentato la mia vera scuola. Sì, perché se il pubblico non reagiva alle battute e non rideva voleva dire che avevo sbagliato, che c’era qualcosa da correggere». «Ho incontrato buoni maestri: il vecchio comico dell’avanspettacolo Del Vago caduto in disgrazia, che mi insegnava i tempi teatrali, il direttore del night club che mi suggeriva di dire meno parole possibili. Intrattenevo il pubblico tra uno spogliarello e l’altro. Raccontavo storielle, barzellette, dicevo stupidaggini. E pian piano mi inventavo il personaggio del bulletto romano che litigava con la lingua italiana. “Andondovicisi”. “Mettendocisivi”. Facevo in modo che i clienti bevessero. Come facevano le entraîneuse. Grotte del piccione, Rupe Tarpea, Fascination, Stork Club» (a Claudio Sabelli Fioretti). Uno dei suoi primi palcoscenici fu, a partire dal 1967, quello del Puff di Lando Fiorini. «“Lo provocavamo: ‘Perché nun s’aprimo una pizzeria?’. Ma lui no. Diceva: ‘Voglio aprire un cabaret’. E un cabaret aprì. Il Puff è ancora lì. E, se una cosa resiste 50 anni, significa che vale”. Quando lei emigrò al Bagaglino – racconta Lino Banfi – Fiorini non la prese bene: “Ti sostituisco con il primo stronzo che incontro”. Lo stronzo, va da sé, era Banfi medesimo. “Credo che Lino l’abbia un po’ romanzata. Il Bagaglino per noi del cabaret equivaleva alla Juventus: mi lasciai convincere. Poi al Puff, con Homo cras?, tornai in un secondo momento”. Sperimentavate? “Intorno al gruppo gravitava Emy Eco, la sorella di Umberto: ‘Dì a tuo fratello che ci regali uno scarto’, le dicevamo. Un giorno incredibilmente ci portò un testo che Eco aveva scritto per noi. Lo mettemmo in scena senza fiatare, ma non è che il pubblico ridesse poi molto. Erano abituati alle scenette, alle barzellette sceneggiate, all’umorismo immediato”» (Pagani). «Sono un ex ragazzo del Sessantotto. Iniziavo a lavorare proprio in quegli anni al Puff con Lando Fiorini. La ribellione per noi era un valore. Nascondevamo i nostri coetanei che sfuggivano alla polizia. E, anche se recitavamo pezzi comici, l’intento era sempre quello di infrangere dei tabù. Io facevo l’imitazione di papa Paolo VI e la gente si alzava indignata, chiedendo la restituzione del prezzo del biglietto».  «Una volta, io facevo Bravo al Sistina, e vennero a trovarmi Walter Chiari e Delia Scala, per me due mostri sacri. Ricordo ancora che lei disse: “Vedi, Walter, Enrico è dei nostri”. Per me fu come vincere un Oscar» (ad Alessandro Chiappetta). Nel 1968, l’approdo alla Rai di Milano. «Una volta c’erano dei dirigenti molto attenti che andavano nei teatrini: mi videro Castellano e Pipolo al vecchio Bagaglino – che ai tempi era ancora agli esordi, nella cantina e non al Salone Margherita, quando c’era una certa libertà e facevo una mia satira che non era né di destra né di sinistra – e mi chiamarono. Lì ho conosciuto Pino Caruso, e per risparmiare prenotavamo insieme il vagone letto: dopo lo spettacolo prendevamo il treno per Milano alla stazione Tiburtina e arrivavamo alla mattina, col nebbiùn, perché nel 1968 Milano gh’avea la nebia, non è come adesso… […] Un motivo d’imbarazzo per noi era chi se spogliava per primo tra me e Caruso: eravamo insieme in questo vagone letto, chi dormiva sopra e chi dormiva sotto, chi si spogliava, e girate de qua e girate de là: “Ma che, te stai a guardà?”, gli dicevo io… C’erano questo romano e questo siciliano, come degli emigranti un po’ più di lusso, che andavano a laurà a Milan. Però, insomma, Milan l’è un gran Milan. E ci è andata bene, perché quella è stata la mia città padre» (a Gabriele Lazzaro). «Dopo la trasmissione Che domenica, amici, un programma televisivo che entrava nelle case di ben 13 milioni di ascoltatori, ero diventato famosissimo, e sono andato in crisi: […] avevo paura di non avere abbastanza tempo per creare lo spessore e il repertorio necessari per affrontare quella popolarità, nonostante avessi fatto moltissime serate di teatro cabaret». Durante una sua esibizione televisiva, però, «“mi vide la mamma di Dino De Laurentis, zio Dino, il grande, il quale mi convocò e mi mise sotto contratto accanto al mio idolo, poiché ero specializzato nelle imitazioni. Questo idolo non poteva essere altri se non Alighiero Noschese, con il quale girai ben sei film». «Quando mi mise sotto contratto, mi riconobbe una cifra da sogno: “Dove si firma? – dissi –. Va bene anche l’elenco del telefono”. Dino mi aveva adottato. Ero un ragazzo. Entravo e uscivo dal suo ufficio. Aprivo il rubinetto, e forse un po’ ingenuamente gli raccontavo tutto. Dino era fascino puro. Conosceva il senso dello spettacolo: “Dobbiamo far ridere – diceva –, ma anche emozionare. Mettiamoci un bell’inseguimento, qui”. Ed era tutto un fiorire di macchine lanciate nei canali, sirene e prodezze degli stuntman». «Grazie ai film con Noschese venni notato da Garinei e Giovannini, i quali mi vollero al Sistina per il ruolo di Rugantino, la maschera romana per eccellenza. Che potevo desiderare di più? Posso dire che da quel momento, per fortuna, non mi sono più fermato». «Si forma nei cabaret romani mostrando un talento comico e doti da imitatore che trasferisce senza difficoltà sul grande schermo dalla fine degli anni ’60 in commedie brillanti come Io non scappo… fuggo (1970) di F. Prosperi, al fianco di A. Noschese. Con registi capaci di arginare l’esuberanza tipica del mattatore teatrale, trova ruoli efficaci nei quali tempera gli slanci comici a favore dello spessore del personaggio, per quanto sempre funzionale a opere di cassetta. Lavora in particolare con P. Festa Campanile e G. Capitani, e nel 1976 brilla nella parte di “Er Pomata”, l’incallito quanto sfortunatissimo scommettitore, al pari del compare “Mandrake”/G. Proietti, di Febbre da cavallo di Steno, film divenuto un cult popolare. Viene diretto anche da M. Monicelli (Camera d’albergo, 1980; I picari, 1988) e trova un buon affiatamento con C. Verdone in I due carabinieri (1984), diretto dallo stesso Verdone, e con R. Pozzetto in Noi uomini duri (1987) di M. Ponzi e Piedipiatti (1991) di C. Vanzina» (Gianni Canova). Parallelamente, Montesano aveva continuato a lavorare anche in teatro e in televisione, con trasmissioni come Senza rete, Un disco per l’estate, Canzonissima, Dove sta Zazà, Mazzabubù, Quantunque io e Giochiamo al varieté. «Nel 1988 e nel 1989 ho condotto Fantastico, che è stato veramente fantastico di nome e di fatto, e poi ho partecipato a quattro puntate di una trasmissione che però non carburava, perciò ho abbandonato l’impresa». Si trattava del varietà Fantastico Enrico, «show del sabato sera legato alla Lotteria Italia, abbandonato dopo poche puntate, e che ha segnato nel ’97 il suo lungo esilio, con poche eccezioni, dalla Rai. Ha fatto pace anche con questo. “Non so cosa sia successo. Avevo già condotto Fantastico dieci anni prima ed era stato un successo strepitoso: probabilmente non abbiamo capito che i gusti del pubblico erano cambiati definitivamente”» (Maria Corbi). «Dopo Anche i commercialisti hanno un’anima (1994), sempre di Ponzi, interpreta Febbre da cavallo – La mandrakata (2002), sequel di Febbre da cavallo (1976) di Steno, per la regia di C. Vanzina, e Il lupo (2007) di S. Calvagna» (Canova). «Anche dopo le esperienze cinematografiche sono andato in crisi, poiché non tutte le ciambelle riescono col buco, e il cinema, così come ti prende, poi ti lascia; gli “affari dello spettacolo”, però, […] devono andare avanti, e così non mi sono fermato e, forte dell’affetto della mia vera famiglia artistica, cioè il teatro, ho tenuto duro fino a che non mi hanno richiamato in televisione». Negli ultimi anni, comunque, al di là di qualche partecipazione cinematografica (Bastardi, Ex, Tutto l’amore del mondo) e televisiva, principalmente nel ruolo di giurato della trasmissione di Rai Uno Tale e quale show («Fare il giurato è una pacchia. Stai lì seduto e ti pagano per guardare gli altri che lavorano. Cosa chiedere di più?»), si è dedicato soprattutto al teatro, spesso nella duplice veste di autore e interprete, e ha portato in scena, tra l’altro, Rugantino, reinterpretato nel 2018 a quarant’anni dalla sua prima volta («A me il 1978 sembra ieri. E poi Eduardo non ha continuato a fare Natale in casa Cupiello fino a 80 anni? E Ferruccio Soleri non è Arlecchino a più di 80? Le maschere non hanno età. Sono eterne»), Il marchese del Grillo, adattamento teatrale del celebre film di Monicelli («Il mio marchese è più bonario di quello di Sordi, meno cinico, meno cattivo nei suoi scherzi crudeli ai danni dei popolani. Certo, la famosa frase c’è: “Ah, me dispiace. Ma io so’ io e voi non siete un ca…”. Ma non la dico molto volentieri. Siamo rimasti alquanto fedeli al film, ma il finale è leggermente diverso») e Il conte Tacchia, adattamento dell’omonima pellicola di Sergio Corbucci (1982), uno dei maggiori successi cinematografici di Montesano. «L’avevamo lasciato in una piazza di Trastevere dei primi anni del ’900. Dopo essere sfuggito a un matrimonio combinato, a un duello con uno spadaccino francese e alla guerra in Libia, il conte Tacchia di Enrico Montesano si preparava a partire per l’America assieme alla sua Fernanda. Lo ritroviamo a Roma nel 1944, tra le truppe americane venute a liberare l’Italia. Nato nel 1982 come personaggio del grande schermo (regia di Sergio Corbucci), Francesco “Checco” Puricelli, anche detto Conte Tacchia, oggi si trova catapultato in teatro. Ha qualche anno in più, ma il suo sorriso innocente e la sua ossessione per l’araldica non sono cambiati. “Dopo Rugantino e Il marchese del Grillo, volevo completare un’ideale trilogia su Roma”, racconta Enrico Montesano, protagonista de Il conte Tacchia, commedia musicale scritta con Gianni Clementi. […] Perché è così affezionato al conte Tacchia? “Attraverso le sue avventure e il suo sguardo raccontiamo una Roma che non c’è più. Francesco Puricelli ora è Frank Puricelli, sergente dell’esercito americano, un paisà. Rispetto al film, abbiamo salvato alcune parti salienti, ma il resto è nuovo. Oltre alla canzone ’N sai che pacchia del maestro Trovajoli, musicalmente si va dal ragtime al boogie-woogie passando anche per un valzer”. […] I personaggi di questa storia sono quasi favolistici. “Non è certo una Roma aspra né greve, semmai dura, perché racconta le difficoltà del popolo. A me piace quel tono gentile del racconto: ormai si narrano solo Suburre e Gomorre. Avendo vinto tre David di Donatello, faccio parte dell’Accademia dei David e vedo molti film. Lo sa che in uno di questi si sniffava cocaina ben 12 volte? Le ho contate. Ecco, mi sono stancato”» (Katia Ippaso) • È autore di un romanzo giallo, Un alibi di scorta (Gremese 2011). Da qualche anno medita di curarne la trasposizione cinematografica, a oltre trent’anni dal suo fortunato esordio dietro la cinepresa. «Sarebbe il mio secondo film come regista. Con il primo, A me mi piace, nell’85, vinsi un David di Donatello come miglior esordiente. Io ho i tempi lunghi» • Sei figli da tre donne: il primo, Mattia, dalla relazione con la stilista Marina Spadafora; Tommaso, Oliver e Lavinia dalla prima moglie, Tamara Moltrasio; Enrico Michele e Marco Valerio, anch’essi attori spesso al fianco del padre, dalla seconda e attuale consorte, Teresa Trisorio • Grande tifoso della Lazio • Vegano. «La verità è che la carne non l’ho mai amata, il pesce mi ha sempre fatto solo impressione. Ricordo bene che da piccolo quando mi dicevano “Andiamo a pescare” io non ci andavo: non sopportavo quell’amo ficcato nel palato di quegli animali. Forse già lì c’era una componente etica, ma erano tempi non sospetti, diciamo. Poi ho letto, mi sono informato… Certo, il formaggio è stato la cosa più difficile da eliminare, mi piaceva. Ma adesso ho capito che è meglio così. […] Sicuramente mi sento meglio» • Qualche esperienza politica negli anni Novanta, dopo anni di militanza nel Psi. «Ho cominciato nel ’77, e allora c’erano ancora quelle belle feste dell’Avanti e dell’Unità. Dal ’93 al ’95 sono stato consigliere comunale per il Pds. Ma non è servito. Non serve che al consigliere arrivino delle proposte già deliberate! Nel 1996 mi sono dimesso da parlamentare europeo, rinunciando al vitalizio». Nel 2013 dichiarò il proprio voto per il Movimento 5 stelle, da cui in seguito sembra essersi distaccato • «Io sono cresciuto a via in Selci, nel quartiere Monti, a casa di mia nonna paterna. […] Non mi sono mai allontanato né da Roma né dall’arte. È una questione di Dna. Però adesso questa città non la riconosco più. Le strade sono piene di gente incazzata che vuole sopraffare gli altri. Io non riesco ad andare in bicicletta che c’è sempre qualcuno che tenta di attentare alla mia vita. Ormai è stata istituzionalizzata non solo la seconda, ma anche la terza fila di macchine parcheggiate». «Roma è diventata una città bancomat, come la chiama Francesco Erbani. È una terra di conquista. Nessuno la rispetta. Rispettarla significa curarla, significa avere un’idea di città. Insomma, aridateci Petroselli!» • «Al nostro Paese servirebbero più poeti, certamente meno opinionisti e cuochi» • «Montesano l’antipatico? “A qualcuno lo sono stato e a qualcun altro sto proprio sulle balle, ma capita a tutti gli uomini. Se hanno parlato male di me, lo hanno fatto alle mie spalle: è più comodo ed è più umano. Per questo avrei voluto come fratello maggiore Paolo Villaggio. Un genio che le cattiverie te le diceva sul muso”» (Pagani). «Quando sul set stavo con Mario Monicelli, Nino Manfredi o Aldo Fabrizi, non fiatavo. Ma, se poi non c’erano personaggi di quel livello, io volevo dire la mia. Questo infastidiva. Con gli anni, penso che sarei dovuto essere più accomodante, ma come si fa a evadere dal proprio carattere?» • «Un grande attore, uno showman, un comico (“Una bellissima parola, mestiere di cui vado fiero”) che ha creato personaggi indelebili come la romantica signorina inglese (“Oh, pittoresco…”), Felice Allegria (“’N’apocalisse…”), il pensionato sor Torquato (“Dicono che de Aids se mòre… perché, de Inps se vive?”)» (Corbi) • «Mi piacciono i comici di Comedy Central. Sono scorretti. Saverio Raimondo, il sosia di Di Maio, il Di Maio dei poveri o dei ricchi, ad esempio, è molto bravo» • «“Ho amato Totò, Chaplin e Buster Keaton”. Kezich la paragonò proprio a Keaton, Mario Camerini, invece, diceva che lei doveva recitare perché aveva una luce (“le candeline”) negli occhi. “‘Mario, che cosa devo fare?’, chiedevo. ‘Niente, vai bene così, al naturale’. Per noi che scuole non ne avevamo fatte, una settimana con un regista come Camerini valeva un biennio al Centro Sperimentale”. Registi ne ha incontrati tanti. “Samperi era sempre in ritardo. Arrivava a mezzogiorno, quando venivo convocato alle 9. Un giorno lo fermo: ‘Salvato’, ma allora posso venì a mezzogiorno pure io?’. In generale andavo d’accordo anche con quelli con cui non lavoravo. Fellini lo incontravo in via Margutta con il suo sciarpone arrotolato: ‘Come sta, maestro?’, ‘Eh, insomma, fa freschetto oggi’, e poi lo ritrovavo spesso in camerino. Mi veniva a trovare nell’intervallo e si tratteneva a parlare ben oltre il previsto inizio del secondo tempo. Ci guardavamo imbarazzati con Garinei pensando alla gente in platea, ma Fellini come lo fermavi?” Attori memorabili? “Monica Vitti. Avrei dovuto darle uno schiaffo per esigenze di scena. In prova tutto bene, poi giriamo. O lei mi venne incontro troppo velocemente o io caricai lo schiaffo senza modulare la forza, fatto sta che uscì fuori una vera sberla. Monicelli esultò: ‘Schiaffo perfetto’. Io, mortificato, mi scusai in ogni modo, lei era sconvolta. Il colpo l’aveva preso”. Con chi le sarebbe piaciuto lavorare? “Con Ettore Scola. Ci incontravamo ai funerali senza riuscire a reprimere la tentazione di ridere, non per cattiveria, ma perché ai funerali, per la situazione, è difficile non ridere. A Scola dicevo: ‘Prendimi per un film, sono il comico di mezzo’. A lui la definizione piaceva. Capiva cosa volevo dire. Per noi comici nati a cavallo tra i Gassman e i Troisi era oggettivamente durissima”. […] Gli agenti, lei li chiamava i “prendenti”. “Mi hanno venduto male”, disse. “Sono commercianti dello spettacolo, hanno una visione lontana da quella dell’artista e ogni tanto ti danno cattivi consigli. Ho detto ‘sì’ a film che avrei fatto meglio a non fare, ma quando è accaduto è stato soprattutto per colpa mia. A un certo punto mi sono fermato e non li ho più fatti”. Ed è per questo che fa pochissimo cinema? “Se non fai un certo tipo di film, un po’ ti allontani e un po’ ti allontanano. I cinepanettoni, ad esempio, io non li ho mai interpretati”» (Pagani). «Sicuramente due o tre film non dovevo farli, erano proprio brutti. Non mi hanno giovato. Quelli che ricordo io sono Aragoste a colazione, Il ladrone, Il conte Tacchia, Febbre da cavallo: erano commedie divertenti…» • «A me piace creare lo spettacolo dall’inizio alla fine. Sono come un falegname: che, me fate fà solo le sedie? No… faccio tutta la casa» • «Da quando ho iniziato, il mestiere dell’attore è molto cambiato. Ora non ci si può più permettere di avere una sarta, un segretario che ti accompagna. Faccio tutto da solo, parto con lo zaino in spalla come quando avevo 19 anni. Ci metto tre camicie, la tuta, i trucchi, il pc, il copione, due libri da leggere se mi annoio… perché in tournée ti ritrovi solo. Ho anni di solitudine alle spalle. Solo a Napoli c’è sempre qualcuno che ha voglia di chiacchierare. Napoli è la zia che ti piace, che ti fa ridere e che ti dà le cose buone di nascosto dalla mamma». «Io non ho settant’anni. C’è un errore anagrafico che mi porto appresso da quando sono nato. E, se proprio ne devo parlare, mi piace pensare di avere vent’anni moltiplicati per 3,5. Questo è il mio coefficiente». «Ha qualche rimpianto? “Nella mia carriera ho fatto degli errori: avrei dovuto dire ‘sì’ a Nanni Loy e partecipare al suo film Mi manda Picone. E ascoltare Francesco Rosi invece di girare una fiction. Però sono stato sempre coerente con il teatro, e questo salva un attore. È faticoso, ma magico e non ripetibile”. […] Le manca qualcosa? “Niente. Vivo il momento senza mettere in moto la macchinetta mentale del passato e del futuro, perché si perde il presente”» (Daniela Lanni).