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 2019  giugno 06 Giovedì calendario

Mao piace ancora, in Asia come in Occidente

Nel 2024 la Cina comunista supererà i 74 anni di vita dell’Unione Sovietica e gli storici potrebbero ricordare la rivoluzione cinese dell’ottobre 1949 non solo come più longeva, ma anche come più influente di quella russa dell’ottobre del 1917, a maggior gloria dell’attuale Politburo di Pechino impegnato in una grandiosa operazione di soft e hard power nel continente asiatico, con ramificazioni in Africa e in Europa e 800 miliardi di euro di investimenti esteri, in uno scenario di sfida geopolitica con gli Stati Uniti per la supremazia economica, tecnologica e militare. 
La narrazione occidentale dell’ascesa cinese, da alcuni giudicata pericolosa e da altri un’opportunità, manca sempre di un tassello che invece è il cuore di un bel libro appena uscito in Gran Bretagna, e non ancora tradotto in italiano, scritto da Julia Lovell, professoressa di Cina moderna all’Università di Londra. Il libro si intitola Maoism - A global History (Vintage Publishing)
Il maoismo è la dottrina politica che costituisce, con tutte le contraddizioni ideologiche riconosciute dallo stesso Mao, l’essenza della Cina popolare e del sistema comunista cinese di ieri e di oggi, oltre che una fonte di ispirazione globale senza confini e senza precedenti.
Nel settembre del 1976, il quotidiano La Repubblica diede la notizia della morte del presidente cinese Mao Tse-tung con un titolo di prima pagina che a caratteri di scatola recitava così: «È morto il grande Mao». L’aggettivo «grande» non è esattamente il primo che viene in mente per descrivere un dittatore che, secondo le stime dello studioso olandese Frank Dikötter, un’autorità in materia di Cina, avrebbe causato la morte di 45 milioni di suoi concittadini. Nella mia libreria di casa c’è, esposta al modo di un oggetto pop, una copia del Libretto rosso di Mao, con splendida copertina vermiglio di vinile. Ovviamente non mostrerei mai il Mein Kampf di Hitler o qualcosa di Stalin, così come a nessun giornale sarebbe mai venuto in mente di affiancare l’aggettivo «grande» al nome di un dittatore criminale del Novecento diverso da Mao. 
E, dunque, per capire perché il maoismo da idea di riscatto contadino sia diventato forma di governo e un fenomeno globale e pop, capace prima di ammaliare intellettuali e artisti e poi di mantenere lo status di evento alla moda nonostante lo sterminio di massa, Lovell racconta che il mito di Mao nasce grazie a un libro del 1936 scritto dal giornalista americano Edgar Snow, intitolato Stella rossa sulla Cina e frutto di lunghi colloqui con Mao durante la guerra civile tra i comunisti e il governo nazionalista cinese. Quel libro, tradotto anche in cinese, ha fatto diventare Mao una celebrità politica locale e internazionale e ha fatto da didascalia all’ascesa al potere del Grande Timoniere, al «Grande balzo in avanti» con cui avrebbe dovuto riformare il Paese e alla Grande rivoluzione culturale con cui si riprese in mano il partito dopo il fallimento del piano economico. Mao ha ispirato una serie infinita di movimenti politici in Asia e in America Latina, in Africa e in Europa, vecchi e nuovi, alcuni dei quali sono arrivati al potere, come Pol Pot in Cambogia e Kim Il-sung in Corea del Nord, altri sono sconfinati nella lotta armata, come Sendero Luminoso in Perù, le Brigate rosse in Italia, la Rote Armee Fraktion in Germania, le Pantere nere negli Stati Uniti e l’Olp in Medio Oriente.
Il saggio di Lovell racconta l’ubriacatura politica e culturale dagli anni Sessanta a oggi, dai caffè parigini ad alcuni tragicomici esempi italiani come Servire il Popolo di Aldo Brandirali e le mobilitazioni studentesche a Pisa e alla Cattolica di Milano, ma avverte il lettore che l’appeal globale del Grande Timoniere non è un retaggio del passato. Il maoismo globale, piuttosto, è un’ideologia viva anche nel XXI secolo, in Asia soprattutto, con non poche influenze sull’islamismo radicale, dal regime degli ayatollah sciiti in Iran alle tattiche di guerriglia militare dell’Isis, ma anche sulla retorica della volontà popolare e della «democrazia di massa« contro le élite tecnocratiche delle metropoli. 
La parte più preoccupante del saggio di Lovell è quella sulla Cina contemporanea: nel 2018 il presidente Xi Jinping ha cancellato il limite dei due mandati imposto da Deng nel 1982, trasformandosi in presidente a vita e nel Grande Timoniere del XXI secolo, e alimentando un culto della personalità che ricorda quello riservato a Mao. I telegiornali della sera trasmettono servizi che fanno entrare nelle case dei cinesi tutti e quattro i minuti e i sedici secondi di applausi a scena aperta ricevuti da Xi in occasione del ritiro di un qualche premio. Il controllo tecnologico ha raffinato le tecniche di sorveglianza di massa, di repressione del dissenso e di invio degli oppositori nei campi di rieducazione. 
In piazza Tienanmen si erge il mausoleo di Mao, mentre il quadro di sei metri per quattro, raffigurante il Grande Timoniere, domina l’accesso alla Città proibita. Nel 2016 una gigantesca statua dorata di Mao alta 37 metri è sorta tra mille fanfare nella provincia di Henan, prima di essere abbattuta senza spiegazione dalle autorità. Le stesse autorità che prima hanno accompagnato l’ascesa di Bo Xilai, una delle figure primarie dell’apparato cinese, noto per voler restaurare i fasti della Rivoluzione culturale maoista, e poi lo hanno incarcerato e condannato all’ergastolo. 
Deng aveva rigettato il maoismo, ma al contrario dell’Unione Sovietica che, disfacendosi di Stalin, poteva contare sulla figura unificante di Lenin, la Cina non ha nessun altro mito su cui fondarsi. Tranne Mao.