La Stampa, 6 giugno 2019
Il benvenuto di Panatta a Fognini
Innanzitutto benvenuto, Fabio. Benvenuto nel club dei top-10 italiani, che fino a ieri contava solo due soci, il sottoscritto e Corrado Barazzutti. Dopo quarant’anni, lasciamelo dire, era anche ora che la lista si aggiornasse.
La mia prima volta fu nel 1973, l’anno in cui il computer dell’Atp, allora una novità assoluta, produsse la prima classifica basata su criteri aritmetici. Io ero numero 8, tre anni dopo sarei salito al numero 4, e ovviamente entrare nel cerchio dei migliori del mondo mi fece molto piacere, anche se si tratta di un riconoscimento più simbolico che reale. Essere numero 12 o numero 10 non è poi molto diverso, ma indubbiamente entrare nel club cambia un po’ le prospettive. Gli avversari d’ora in poi guarderanno a Fabio con un occhio diverso, e in questo c’è un aspetto positivo e uno negativo. Quello positivo è che Fabio sarà considerato con l’attenzione e il rispetto che si deve ad uno dei più forti giocatori del mondo. Quello negativo è che ora è diventato una «preda» ambita: tutti vogliono battere un top-10.
La nuova affiliazione comporta inoltre nuovi obblighi, che definirei obblighi di casta. Bisogna concentrarsi sui tornei più importanti, gli Slam e i Masters 1000, dove la concorrenza è più agguerrita e la pressione più alta. Ho sempre pensato che Fabio avesse le qualità per vincere qualcosa di importante, e lo ha dimostrato a Monte-Carlo, fra l’altro battendo un certo Rafa Nadal, che sulla terra battuta non se la cava poi male. Il prossimo obiettivo sono i quattro tornei del Grande Slam - cioè Australian Open, Roland Garros, Wimbledon e Us Open - un altro dei «club» esclusivi del tennis: quando ci entrai, nel 1976, dopo la vittoria al Roland Garros, a darmi il benvenuto fu John Newcombe.
«Finalmente ci sei riuscito», mi disse John proprio a Wimbledon, battendomi una pacca sulle spalle. Anche nel tennis, insomma, gli esami non finiscono mai.
Appena la carovana del tennis lascerà Parigi si inizierà a pensare all’erba e a Wimbledon, che inizierà fra meno di un mese, a fine estate tocca agli Us Open, sul cemento di New York. Sono convinto che Fognini abbia le qualità per fare bene non solo sulla terra ma anche sul «duro», come gli americani chiamano il cemento. Qualche tempo fa mi sono permesso di dargli un consiglio, e cioè di acquistare un po’ di cassette - oggi sarebbe meglio dire cd - di Andre Agassi, e studiarsele bene. Il suo gioco e quello dell’ex numero 1 americano in fondo si assomigliano, tutti e due puntano sulla velocità, sul ritmo, sulle accelerazioni improvvise e spiazzanti, ma Andre non andava certo a rispondere dalle «griglie», come si dice in gergo, cioè troppo indietro, a ridosso delle tribune. Stava con i piedi ben piantati sulla riga di fondo, come dovrebbe fare anche Fabio se vuole raccogliere il massimo dal suo tennis pieno di talento, e da lì comandava il gioco. Fabio può togliersi altre soddisfazioni, senza però pensare troppo al numero che vede accanto al suo nome nella classifica. Perché il bello di essere un top-10, lo dico per esperienza, viene a fine carriera: quando lo si può raccontare a figli e nipoti.