Corriere della Sera, 6 giugno 2019
Biografia di Mette Frederiksen
A 41 anni, con un divorzio alle spalle e due figli teenager in casa, la più giovane premier della storia danese (e la seconda donna) è una grande appassionata di liste, non solo elettorali. «Si interessa di politica da quando aveva sei-sette anni» ha raccontato ai media locali il padre Flemming, ex tipografo cresciuto in un famiglia che nella terra dell’eolico spinto e dei biscotti burrosi vota socialdemocratico da quattro generazioni. Mette Frederiksen è entrata nel partito a 15 anni e in Parlamento a 26. Anche se è già stata ministro del Lavoro e della Giustizia (sotto la guida di Helle Thorning-Schmidt, prima che il suo partito passasse all’opposizione nel 2015) tutti ne parlano come del volto più nuovo (e per certi aspetti irriconoscibile) della sinistra nordeuropea. «Faccio sempre una lista delle cose da fare – racconta nel libro Un ritratto politico —. E mi piace tirare una riga su quelle appena fatta, per passare alla successiva».
La prima riga l’ha tirata sui migranti, accogliendo tutte le misure restrittive proposte dal governo di minoranza appoggiato dal Partito popolare danese (Df), fino a ieri vero kingmaker di Copenaghen. Dal bando del burqa in pubblico alla riduzione del diritto d’asilo, dai rimpatri alla confisca dei beni e dei gioielli dei migranti per contribuire al loro mantenimento, la pragmatica di Aalborg si è schierata sulla trincea antimmigrazione dei Df, gli stessi che vent’anni fa l’allora premier socialdemocratico Rasmussen bollava come «inaccettabili xenofobi». Altri tempi, altra sinistra. «Faccio compromessi su tutto, ma non sull’immigrazione», dice Frederiksen. È la stessa che all’inizio del millennio denunciava la politica del suo Paese come «la più dura d’Europa». Come immaginarsi Zingaretti e Salvini che tuonano insieme contro gli sbarchi: la «signora delle liste» che ha proposto «un tetto all’immigrazione non occidentale» ha dato interviste congiunte con il leader nazionalista Kristian Thulesen Dahl, che l’ha accolta con caffè e sorrisi prima di accorgersi (troppo tardi) del rischio di essere «vampirizzato». A cosa si deve questo cambio? «Quando ha cominciato a fare la ministra, Mette ha capito che la politica di integrazione non stava funzionando», dice a Le Monde il suo biografo Thomas Larsen.
Se non c’è del marcio in Danimarca, c’è dell’elastico: una leader e un partito che da una parte virano decisamente a destra sulla questione migranti, dall’altra si buttano a sinistra sui temi economici. Duri con gli stranieri (nel 2018 sono state accettate solo 1.618 richieste d’asilo), dolci con i danesi che (come in Finlandia) negli ultimi anni hanno preso male i tagli alla spesa pubblica su sanità e istruzione, decidendo alle urne di riportare al governo i campioni storici dello Stato sociale. «Basta austerity», è un’altra voce sulla lista di Mette. «Ovvio che dobbiamo ricominciare a spendere». L’economia danese le lascia margini di manovra: crescita al 2,2%, disoccupazione sotto il 4%, debito pubblico sotto il 40% del Pil.
Quando è partita la campagna elettorale, subito dopo il voto europeo (il premier liberale Lars Lokke Rasmussen pensava di bissare il successo del 26 maggio), la futura premier si trovava in ospedale per un’intossicazione alimentare. Ha annunciato il rientro su Facebook, con un video tratto da un film di Quentin Tarantino. Tacchi a spillo e musica heavy metal: «Sono pronta, facciamo ripartire questo autobus».
L’autobus della sinistra nordeuropea collega tre Paesi, senza contare l’Olanda: Finlandia, Svezia e ora Danimarca. L’Uma Thurman di Copenaghen sarà un modello anche a Sud delle Alpi?