Corriere della Sera, 5 giugno 2019
La storia di Oreste e Arturo Squinobal
Nella finestra di bel tempo di maggio che consente la salita alle montagne più alte del mondo in Himalaya ci sono state oltre venti vittime (undici solo sull’Everest): le ultime otto travolte da una valanga sul Nanda Devi la scorsa settimana. Molti sono morti perché avevano scarse esperienze alpinistiche e si erano affidati alle agenzie che assicurano «la vetta a tutti i costi». Questo alpinismo è lontano anni luce da quello dei fratelli Oreste e Arturo Squinobal, valdostani di Gressoney-Saint-Jean, la cui storia è raccontata nella ristampa (con postfazione di Paolo Cognetti) del libro di Maria Teresa Cometto che non a caso si intitola «Due montanari». Una nuova edizione 35 anni dopo quanto mai necessaria proprio alla luce della strage sugli Ottomila, che mette a confronto l’alpinismo dei record e delle scalate in diretta Facebook con quello in cui c’era un rapporto sacrale con la montagna.
Oreste (che è mancato nel 2004) insieme a Innocenzo Menabreaz il 2 maggio 1982 fu il primo italiano a raggiungere gli 8.586 metri del Kangchenjunga, la terza vetta del pianeta, senza ossigeno sulla Via Normale di sud-ovest, quattro giorni prima che giungesse in cima Reinhold Messner che salì invece dal lato nord-ovest. Oreste era guidato e incitato a non mollare dal campo avanzato dal fratello Arturo, bloccato da un malanno fisico. Oreste e Arturo, falegnami walser, sempre insieme prima sull’amato Monte Rosa, poi protagonisti di scalate che hanno lasciato il segno, come le prime invernali della parete Sud (1971) e di quella Ovest (1978) del Cervino, la prima invernale integrale della lunga cresta di Peutérey sul Bianco (1972).
I fratelli Squinobal, che vanno a scalare con ancora la segatura tra i capelli dopo una giornata di lavoro tra seghe e pialle, sono gli stessi che tra gli sherpa del Nepal trovano un profondo legame con la loro valle. Una vicinanza che capiscono confrontando la vita semplice e dura che si svolge nelle valli himalayane con le storie che gli anziani raccontavano nell’antica lingua titsch dei walser, storie di fatica, di freddo, di campi strappati centimetro per centimetro alla roccia come a Loomatten, la frazione di Gressoney dove da generazioni abitava la famiglia Squinobal, che poi d’estate si trasferiva all’alpeggio Cialvrina. «Alcune case nepalesi sono simili alle nostre walser: alle finestre al posto del vetro c’è il budello delle mucche raschiato fino a farlo diventare trasparente, cose che – i nostri vecchi ci raccontano – una volta c’erano anche a Gressoney».
Due antieroi, che si riconoscono pienamente nella definizione «montanari», che dicono alla giornalista e scrittrice di «parlare della loro terra, delle loro radici, senza cadere però nei luoghi comuni della vita idilliaca in montagna o della nostalgia dei bei tempi andati. Non facciamo nemmeno credere che in montagna si è tutti fratelli», le suggeriscono, «e che c’è posto solo per i sentimenti buoni: bisogna dire che c’è modo e modo di fare alpinismo e spiegare il nostro, senza fare troppa filosofia e moralismo. È uno sbaglio grossolano pensare che la gente di montagna, avendo sempre di fronte il panorama di magnifiche cime, se ne senta attratta e spinta in modo naturale a raggiungerle. Storie! La montagna, per chi ci abita, è fatica, è pericolo. È una natura con cui devi imparare a convivere tutti i giorni, difenderti dalle sue insidie. Le “vette” sono lontane, irraggiungibili. Non ci pensi nemmeno, troppo preso dai pensieri primari della sopravvivenza. Oppure ti incutono un istintivo senso di rispetto, un timore reverenziale per l’alone di mistero che le avvolge».
Quanta distanza, di tempo e di mentalità, da chi oggi assalta le vette più alte del mondo senza aver rispetto per la fatica e la montagna.