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 2019  giugno 05 Mercoledì calendario

Venezuela, la battaglia decisiva per il petrolio

Il Venezuela non è conosciuto solo come patria di Simón Bolívar, ma anche per le sue risorse naturali. La produzione di petrolio attorno al lago Maracaibo è iniziata dopo la Grande guerra, attirando investimenti delle società petrolifere che, dopo aver perso la produzione russa, vedevano il fermento rivoluzionario minacciare anche quella messicana. Già alla fine degli anni 20, il Venezuela era diventato il più grande esportatore di petrolio al mondo, posizione che avrebbe mantenuto fino alla fine degli Anni 60.
Negli Anni 70, grazie alla rendita petrolifera, i venezuelani vantavano il reddito pro capite più alto dell’America Latina. Un volo settimanale del Concorde univa Caracas e Parigi e le borghesi venezuelane erano conosciute come dame dos (dammene due), shoppers internazionali compulsive grazie alla solidità del bolívar.
Il modello di economia della rendita che aveva trasformato, non senza contraddizioni, una popolazione di contadini poveri in un Paese moderno, crollò negli anni 80 assieme ai prezzi del petrolio: grattacieli di Caracas trasformati in rovine verdeggianti, sommosse popolari contro l’austerità, il tutto accompagnato dalla liberalizzazione del settore petrolifero (“apertura”). L’ascesa di Hugo Chávez nel 1999 ha contribuito a riportare il settore petrolifero sotto il controllo statale e ha coinciso con un aumento dei prezzi del petrolio che, facendo lievitare le entrate, ha consentito massicci investimenti nel sociale e nelle infrastrutture. Dopo la morte di Chávez, con la diminuzione dei prezzi del greggio nel 2014, il modello è imploso e il Paese vive la peggiore crisi economica e sociale dall’inizio del 900, a riprova di quanto erano fragili le fondamenta dell’economia chavista.
Le entrate statali venezuelane dipendono per la quasi totalità dai ricavi dalle esportazioni di petrolio e, per l’effetto moltiplicatore della spesa pubblica, tengono in piedi l’intera economia venezuelana. Il Venezuela vanta le maggiori “riserve provate” di greggio al mondo (il 25 per cento del totale Opec, più dell’Arabia Saudita). Nel 2014 Pdvsa, la società nazionale del petrolio e quinta maggior impresa petrolifera al mondo, estraeva 3 milioni di barili al giorno. Oggi la produzione è tracollata a 700 mila barili al giorno, con una perdita potenziale di ingressi per le casse venezuelane, ai prezzi attuali, di circa 40 miliardi di dollari l’anno. Il governo di Maduro ha affidato le joint venture di Pdvsa nell’Orinoco a società russe e cinesi, gran parte della produzione di Maracaibo e nell’est ai “nuovi ricchi” chavisti (boliboys) o a società private venezuelane. Il settore petrolifero è fuori controllo.
Quando a un petrostato mancano le entrate petrolifere, manca sangue. Maduro ha cercato di sopperire con trasfusioni di denaro che a oggi hanno fatto lievitare il debito estero a 100 miliardi di dollari. Il Paese è sottoposto a sanzioni americane. Queste hanno iniziato a far più male dal 2019 (quando Washington ha riconosciuto come governo legittimo quello di Guaidó) con il blocco alla compravendita di titoli del debito pubblico, gli ostacoli posti all’acquisto di greggio venezuelano, i vincoli ai pagamenti della Citgo (ottava più grande raffineria americana di proprietà di Pdvsa). Le sanzioni americane avrebbero potuto essere aggirate, come nel caso dell’Iran, solo se Pdvsa non fosse stata allo sbando.
Donald Trump non vuole impadronirsi del greggio venezuelano. Nel 2018, pompando oltre 10 milioni di barili al giorno, più della metà dei quali di petrolio “non convenzionale”, gli Stati Uniti hanno raggiunto il picco di produzione che avevano toccato nel lontano 1970. Non è escluso che nel prossimo futuro possano ridiventare, per la prima volta dopo il 1948, esportatore netto di idrocarburi. Quel che interessa a Trump, oltre a eliminare un regime ostile, è la possibilità per le imprese petrolifere americane di fare affari in un Paese che le aveva allontanate.
Le proposte avanzate dell’opposizione di Guaidó per il settore petrolifero lasciano presagire una nuova apertura ai capitali stranieri basata su tassazione “competitiva” (bassa), creazione di un’agenzia per regolare il settore petrolifero (estromissione del ministero del Petrolio e del Parlamento), nuovi contratti che consentirebbero a società straniere il controllo sui giacimenti (limiti alla sovranità nazionale sulle risorse naturali sancita a partire dalla nazionalizzazione petrolifera del 1975).
Qual è, dunque, la posta in gioco in Venezuela? Se dovesse prevalere l’opposizione “democratica” il greggio venezuelano sarebbe svenduto a società straniere, con un’impennata della produzione e il concreto rischio che il Venezuela possa uscire dall’Opec (scenario che replicherebbe quello disastroso degli anni 90). Questo minerebbe, tra l’altro, l’unica organizzazione con un minimo controllo sull’offerta mondiale di petrolio e l’unico argine contro il dilagare sui mercati un petrolio “a saldi” che comprometterebbe la battaglia contro il cambiamento climatico.
Se Maduro riuscisse ad arroccarsi, ciò significherebbe un’industria petrolifera in parte controllata da consorterie interne corrotte e incompetenti, nonché da Russia e Cina che pretendono petrolio “scontato” e accesso diretto alla produzione come garanzia dei significativi prestiti elargiti.
Senza un processo di riconciliazione nazionale che coinvolga maduristi, chavisti delusi e opposizione democratica, e che rimetta ordine, senza svendite, alla gestione della principale risorsa naturale del Paese, il Venezuela diventerà uno Stato fallito come la Libia.