Il Messaggero, 5 giugno 2019
La caduta dell’Impero
M i sono sempre chiesto che cosa avessero provato gli intellettuali romani del quinto secolo quando assistevano impotenti ai massacri, alle devastazioni e al crollo del loro mondo che avevano creduto eterno. Sappiamo che anche nei periodi più bui i personaggi più facoltosi facevano coniare medaglie con le effigi dei grandi del passato e le facevano circolare fra il popolo perché non morisse il loro ricordo. Conservavano con somma cura le loro biblioteche che tramandavano la cultura e la letteratura della loro civiltà. Non pochi di loro – pensiamo a Claudiano e a Palladio, a Sidonio Apollinare – continuavano, come niente fosse accaduto, a comporre panegirici, elogi e testi celebrativi in onore dell’imperatore e delle massime autorità civili e militari secondo gli stilemi dei loro autori classici: Cicerone, ( a cui fu paragonato Simmaco), Virgilio, Orazio. Gli altri erano angosciati, o disperati. Fra questi in particolare Paolino di Pella, figlio e nipote di funzionari imperiali subì diverse traversie; dopo essersi trasferito nella Gallia meridionale a Burdigala (Bordeaux), in tarda età, e dopo essersi sottomesso alla ortodossia cristiana compose un poemetto intitolato Eucharisticon. Nei versi 302-310 scrive: «Era la pace che volevo dai padroni Goti: anche loro volevano la pace e non passò molto che essi concessero agli altri, anche se a un alto prezzo, la possibilità di vivere indisturbati. Noi non ci siamo rammaricati di vederli impossessarsi del potere, e prosperiamo grazie al loro favore. Ma non è stato facile: molti di noi hanno dovuto sopportare gravi patimenti. Io sono stato uno di questi: ho perduto i mei beni e sono sopravvissuto alla mia patria» (Trad. di Arnaldo Marcone). QUADRO STRAZIANTE È una testimonianza impressionante: lo sfacelo dello stato e dell’esercito nel tardoantico costrinse le popolazioni romanizzate a piegare la testa. (...) Salviano di Marsiglia, uno scrittore e poi sacerdote cristiano, traccia un quadro straziante della situazione del suo tempo e del suo mondo che inesorabilmente scompare. «Così, intanto, i poveri sono rovinati, le vedove gemono, gli orfani vengono calpestati, a tal punto che molti di loro, e non di oscuri natali e di raffinata educazione, si rifugiano presso i nemici, per non morire sotto i colpi della pubblica persecuzione, e cercano presso i barbari l’umanità romana, dal momento che non possono sopportare presso i romani la barbara inumanità». (...) Sono parole amare, taglienti verso lo Stato romano che opprime i suoi stessi cittadini, che infierisce sui deboli e si piega davanti ai forti. Eppure l’autore che elogia il comportamento dei barbari, più umano di quello dei romani, non riesce a tacere sulla superiorità dei secondi in fatto di civiltà sui barbari che emanano fetore dal corpo e dalle vesti. Sia lui che Paolino di Pella pensano tuttavia che la fine di Roma, della patria, sia una catastrofe. Mentre Salviano scriveva, da tempo l’unità dell’impero si era infranta, dopo la morte di Teodosio era diviso fra i due suoi figli Arcadio e Onorio. L’impero era in due tronconi, ognuno dei quali andava alla deriva. La città eterna, nel 410 era stata conquistata e saccheggiata da Alarico e San Girolamo eremita in Terrasanta levò un voce straziata sulla catastrofe della signora del mondo prendendo ad esempio la caduta di Troia cantata da Virgilio. LA CARNEFICINA «Chi può descrivere la carneficina di quella notte?/ Quali lacrime sono pari alla sua agonia? / Una città sovrana di antica data cade; / E senza vita nelle sue strade e case giacciono / innumerevoli corpi dei suoi cittadini...» (Epistola 127.) Nella nostra memoria storica dunque è impressa a fuoco la catastrofe del nostro mondo: sappiamo come crollò l’impero romano di cui l’Italia era anima e corpo. Già abbiamo visto durante la seconda guerra mondiale le nostre città martoriate dal fuoco che cadeva dal cielo, e nella nostra modernità i vecchi, le donne e i bambini cadere versando sangue per le strade, il martellamento dei bombardamenti, eppure ci siamo ripresi, abbiamo ricostruito le città in rovina. E abbiamo conquistato una prosperità mai prima sperimentata. Abbiamo prestato mano per molti anni alla realizzazione di un sogno: l’unità d’Europa perché i popoli europei sia grandi che piccoli si combattevano da secoli e secoli senza tregua. La guerra era endemica. Si stava realizzando, con l’unione dei paesi europei, il grande progetto geopolitico di Augusto che voleva un continente dove le stirpi del settentrione si amalgamassero con i popoli del mediterraneo. L’obiettivo era una pace duratura in una struttura geopolitica destinata a durare forse in un tempo perenne. (...) Che cosa faremmo noi – mi chiedo – se dovessimo assistere al crollo del nostro mondo a cui siamo da sempre abituati ? LE AVVISAGLIE Quando insegnavo nella sede romana di Loyola University portavo i miei studenti a vedere i resti del foro romano dalla terrazzameridionale del Campidoglio e chiedevo loro: «Potreste immaginare il Mall di Washington in queste condizioni? Certamente no». Pensereste certamente che avrebbe dovuto durare per sempre come è oggi. (...) Si potrebbe ripetere un tale disastro nella nostra epoca? Certamente sì, perché certe situazioni si ripetono nel corso della storia. Arnold J. Toynbee, che aveva assistito alla deflagrazione delle prima bombe nucleari, nel suo Civilizations at trial si chiede se il ciclo delle grandi civiltà (nascita, crescita, apice, decadenza e caduta) non si possa evitare.. (...) Ma, richiamando ancora il grande Arnold J. Toynbee: potrebbe tutto ciò ripetersi? Le migrazioni di massa che nessuno si aspettava e che per ora non sono che un’avvisaglia potrebbero manifestarsi come le antiche invasioni barbariche? La faticosa costruzione dell’Unione Europea che ha portato settant’anni di pace, concordia e prosperità al continente andrà in pezzi per il risorgere dei populismi e dei nazionalismi? La civiltà millenaria dell’Italia e della Grecia continuerà a subire umiliazioni dalle opinioni pubbliche nutrite di ignoranza e dai conti dei burocrati di Bruxelles? Lo sviluppo incontrollato di una cultura tecnocratica e l’abbandono degli studi umanistici porterà una nuova barbarie? La cultura del profitto ad ogni costo continuerà a distruggere l’ambiente preziosissimo di un pianeta forse unico nella galassia? (...)