5 giugno 2019
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Biografia di Marco Minniti
Marco Minniti (Domenico Luca Marco M.), nato a Reggio Calabria il 6 giugno 1956 (63 anni). Politico (Pd; già Ds, Pds, Pci). Deputato (dal 23 marzo 2018; già dal 2001 al 2013); ex senatore (2013-2018). Ex ministro dell’Interno (2016-2018), sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega alle Informazioni per la sicurezza (2013-2016), viceministro dell’Interno (2006-2008), sottosegretario del ministero della Difesa (2000-2001), sottosegretario alla presidenza del Consiglio (1998-2000). «Consiglio a Salvini di imitare un po’ di più Minniti: fare di più, e parlare di meno» (Marco Travaglio). «La parola serve per spiegare quello che hai già fatto, non quello che vuoi fare» • Figlio di un generale dell’Aeronautica militare. «Il papà, militare di carriera, “ha fatto la guerra di Spagna dalla parte dei franchisti”, ed erano dodici figli, “e i nove maschi erano tutti militari di carriera”» (Stefano Di Michele). «Sono sempre stato solitario. Da bambino mi mettevo sotto le coperte e facevo finta di volare: ero un appassionato di volo, e dicevo a mia madre che stavo facendo un “volo cieco”. Beh, lei si preoccupò seriamente per la mia salute mentale…». «Una volta mi lamentai con mia madre per l’eccessiva severità di papà. Lui allora un po’ se ne ebbe a male, e mi disse una cosa di questo tipo: “Ma se ti permetto persino di darmi del tu!”». «Adolescenza negli scout, con l’ex direttore della Dia Arturo De Felice, il questore di Catania Marcello Cardona e l’agente del Sismi Nicola Calipari, ucciso in Iraq […] dai soldati Usa durante la liberazione della giornalista Giuliana Sgrena. Ragazzi cresciuti nella Reggio Calabria dei primi anni Settanta: la rivolta di destra, il boia chi molla, il coprifuoco e le barricate tra un quartiere e l’altro, le scuole chiuse per mesi» (Marco Damilano). «Finito il liceo classico, avrei voluto fare il pilota d’aereo». «Visto che non me lo permisero, a 17 anni feci due cose: iscrivermi a Filosofia e iniziare a militare nel Pci. Entrambe considerate non proprio bene dalla mia famiglia». «Il giovane Marco […] sceglie la facoltà di Filosofia. Studi che lo portano ad appassionarsi alla filologia classica e ad occuparsi nella tesi delle Georgiche di Virgilio attraverso i Grundrisse di Karl Marx: “Solo un matto avrebbe potuto fare una cosa del genere. Stiamo parlando dell’opera più difficile di Marx, mica del Capitale”. Tutto ciò lo divertiva, perché quella tesi avrebbe rappresentato una sfida: “Virgilio era il poeta cortigiano, quello che spiegava la nuova epoca. Nella mente malata di Minniti [è Minniti a parlare, in terza persona – ndr] non era così. Nel senso che invece Virgilio era il cantore di una società che stava scomparendo”» (Giuseppe Alberto Falci). «Mio padre era esageratamente coerente, se così si può dire, tanto che non venne nemmeno alla discussione della mia tesi di laurea, che riteneva del tutto inutile. E lui, mio padre, ha lasciato questo mondo convinto di aver dato alla luce un figlio a cui teneva particolarmente, ma anche particolarmente inutile». «Minniti ha conosciuto D’Alema nel ’74, nella Fgci. A Reggio Calabria, la sua città, fu mandato Claudio Velardi, […] e i due cominciarono a lavorare insieme. “Due pazzi”, ricorda Minniti. D’Alema diventò segretario nazionale dei giovani comunisti, lui segretario dei ragazzi di Reggio. E poi tutta la trafila che allora formava il futuro dirigente comunista: sezioni, comitato cittadino, segreteria, segreteria regionale. “Un tempo bello”, ricorda. Ma anche di dolori, e forse di paura» (Di Michele). «Negli anni Ottanta, giovanissimo, è stato responsabile Pci di zona nella Piana di Gioia Tauro, incarico prestigioso nel senso della prova del fuoco e d’iniziazione: se resistevi potevi aspirare a una carriera a Botteghe Oscure. E il futuro ministro […] nella Piana di Gioia Tauro resiste, cominciando a collezionare aeroplanini, in onore della vecchia passione per il volo militare. Vacilla a un certo punto, quando la ’ndrangheta uccide l’amico Giuseppe Valarioti, politico e insegnante, assassinato nel giugno del 1980 in un agguato, a colpi di lupara, al termine di una cena post-elettorale, dopo la vittoria a Rosarno. Un […] istante, e un […] dubbio: può la politica davvero fare qualcosa contro la criminalità organizzata e a favore di chi vive in luoghi in cui la criminalità organizzata prospera? Anche da quel dubbio è nata, dice un amico, “l’ossessione del ministro per la sicurezza”» (Marianna Rizzini). «Fu […] con una battuta in latino che D’Alema gli preannunciò il suo futuro di altissimo dignitario politico al Bottegone. Avvenne così. Nel ’96, per la seconda volta, Minniti non riuscì ad essere eletto parlamentare. Per eccesso di suffragi nella sua Calabria, comunque. […] Quella notte, il segretario del Pds scrutò i risultati e scrutò Minniti: “Ex malo bonum”. E spiegò: “Ti impegnerai di più”. Diventò coordinatore del congresso, poi segretario organizzativo… “Uno sfigatissimo fortunatissimo”, lo definì su Repubblica Sebastiano Messina» (Di Michele). «Entrò nella segreteria dalemiana e si trasferì definitivamente a Roma. Divenne coordinatore del partito, iniziando il cursus honorum di Botteghe Oscure. Aveva un incarico che lo legava a doppio filo al neo-segretario D’Alema. Ma i due, egualmente orsi, non riuscivano a prendere confidenza. […] Tuttavia, Marco lavorava bene. Suo compito era intessere rapporti con gli sbandati politici dell’epoca – ex Dc, ex Psi, laici – per reclutarli nel suo partito. Max era contento di lui e l’altro lo ammirava come il traghettatore degli ex comunisti dallo stalinismo alla blairismo all’inglese. Nel 1998, D’Alema se lo portò a Palazzo Chigi e lo nominò sottosegretario alla presidenza. Minniti entrò nella cerchia stretta del capo, detta dei Lothar perché, come il personaggio del fumetto di Mandrake, erano quasi tutti calvi: Velardi, Fabrizio Rondolino, Nicola Latorre, eccetera. […] Minniti era l’incaricato a pelare le gatte più rognose. Fu lui a risolvere il caso Abdullah Öcalan, capo dei comunisti curdi, che, fuggito in Italia col beneplacito del nostro governo, ci creò una frattura con Istanbul. La cosa finì col rimpatrio del ricercato, tuttora all’ergastolo in Turchia» (Giancarlo Perna). «A Palazzo Chigi, quella prima volta che ci entrò, nel suo ufficio ebbe la scrivania di Mussolini, quella che il Duce usava da ministro degli Esteri. “Una scrivania spartana”, ricorda, sulla quale tuttavia lui, uomo di sinistra, lavorava con grande ironia. “Un giorno vennero a trovarmi Giuliano Ferrara e Stefano Di Michele. Alla fine esclamarono: ‘Possiamo proprio dire che questa scrivania è in buone mani!’”» (Salvatore Merlo). «Nel 1999 Minniti è a Palazzo Chigi come sottosegretario di D’Alema che ha deciso l’intervento in Kosovo. Squilla il telefono. “Domenico”, si sente chiamare, è il suo primo nome ma tutti lo hanno sempre chiamato Marco, “sono fiero di te”. È il fratello del padre, generale anche lui, con cui non parlava da molti anni» (Damilano). «Dopo i disastri di D’Alema che fa due governi in due anni, per poi andare a sbattere sugli scogli delle Regionali del 2000, Minniti riemerge sottosegretario alla Difesa (il ministro è Sergio Mattarella) nel governo di Giuliano Amato che si barcamena nel solito indistinto, prima di lasciare campo libero alla rivincita di Silvio B. […] Minniti diventa deputato. Passa non del tutto sottotraccia il quinquennio berlusconiano, occupandosi di forze armate, ricostruzione dei Balcani, finanziamenti all’industria militare. Sostiene l’ingresso di Albania, Croazia e Macedonia nell’Alleanza atlantica. E lavora per rafforzarla: “Dobbiamo finanziare i nuovi sistemi d’arma, sviluppare la Difesa europea, costruire i battaglioni di combattimento, coordinati al pronto intervento Nato”. Nella guerriglia interna di partito, abbandona D’Alema, sceglie il suo nemico Walter Veltroni, e quando nasce il secondo governo Prodi, anno 2006, un manicomio con diciotto partiti in coalizione, è di nuovo pronto all’ingaggio. Prodi si fida e non si fida. Lo nomina sottosegretario all’Interno, alle dipendenze di Amato. Ma, un’ora prima che Piero Fassino, segretario del partito, piombi a Palazzo Chigi per sponsorizzare Minniti al coordinamento dei servizi segreti, il Prof ha già girato l’incarico al quieto Enrico Micheli, ex manager Iri, che in quelle stanze così tanto riservate, all’epoca guidate da Nicolò Pollari, non ha nemici, ma specialmente non ha amici. La seconda e definitiva disfatta dell’Ulivo […] non intacca la sua traiettoria. […] Diventato il pupillo di Francesco Cossiga, inventa con lui la Fondazione Icsa, che è una interessante (e costosa) sala giochi per agenti segreti, servizi segreti, agenzie private di sicurezza, banche, strateghi dell’informatica, militari in carriera e militari in declino. Luogo di incontri, convegni, contatti informativi. Il tutto riservatamente benedetto dagli americani. […] Dopo l’addio di Berlusconi, […] Minniti salta un solo giro, quello del governo Monti, ma viene arruolato in tutti gli altri, prima da Enrico Letta, poi da Matteo Renzi, infine da Paolo Gentiloni. Cosa che costituisce un vero record di sopravvivenza, e che lui onora inaugurando – dopo il nulla di Angelino Alfano e della flessibilità sugli sbarchi in cambio di quella sui conti pubblici – la prima vera offensiva del ministero dell’Interno contro l’immigrazione. Dichiarerà: “Non è in gioco solo la perdita di consenso nel breve periodo, ma la tenuta del tessuto connettivo del nostro Paese, un pezzo del futuro della nostra democrazia”. La strategia è inflessibile: svuotare il mare presidiando le coste africane, fermare gli invasori prima che si imbarchino. Dichiarare guerra agli scafisti e fare pace con la guardia costiera libica, moltiplicando i rifornimenti militari. E insieme mettere mano alla dissuasione e ai finanziamenti alle 60 tribù che si contendono il potere, il petrolio e il traffico di schiavi. Risultato, gli sbarchi diminuiscono della metà, il consenso cresce del doppio, la democrazia è al sicuro. Salvo per i cattolici e la sinistra-sinistra, che gli contestano tutto: il metodo, la propaganda, compreso il titolo del suo ultimo libro Libertà è sicurezza. […] Ma Minniti tira dritto» (Pino Corrias). «L’uomo che più di altri ha rappresentato la forza del nostro Paese in materia di sicurezza, contro la minaccia del jihad, è proprio lui, il senatore Minniti. Un ruolo decisivo, considerato che la guerra al terrorismo è di fatto il nuovo conflitto che mette a rischio la stabilità interna e internazionale. […] Porta al vertice del Viminale la sua lunga esperienza di uomo ombra nella cosiddetta back diplomacy. Dal caso Regeni, grazie a una lunga e complessa mediazione con l’entourage del presidente Al Sisi, alla […] liberazione dei tecnici italiani rapiti in Libia, con la delicata trattativa con i Tuareg, la regia delle operazioni dei nostri 007, ha sempre la firma di Marco Minniti» (Grazia Longo). «In questi anni si è fatto moti nemici, a incominciare proprio da D’Alema (“non è un mio delfino, è un militare”). Fino a Gino Strada (“è uno sbirro”). Quando Graziano Delrio lo accusò di fare la guerra alle Ong, lui per poco non si dimise. Solo l’intervento del Colle, che espresse grande apprezzamento per il lavoro svolto dal ministro, lo convinse a rimanere. Sapeva di essere diventato indispensabile. […] Quando era al Viminale, con i metodi da sceriffo utilizzati per fermare gli sbarchi (venne paragonato a Rudolph Giuliani) ha fatto breccia però nell’elettorato di centrodestra, silenziando per un po’ gli slogan sull’emergenza migranti cari al Carroccio e al Movimento 5 stelle. È stato il primo a regolamentare le Ong, varando un codice di condotta che poi ha preso il suo nome» (Francesco Bisozzi). Rieletto alla Camera alle elezioni politiche del marzo 2018, il 18 novembre successivo, raccogliendo dopo lunghe riflessioni l’esortazione di Renzi e l’appello di oltre cinquecento sindaci, Minniti annunciò la propria candidatura alla segreteria del Pd in vista delle primarie, attestandosi in base ai sondaggi tra gli iscritti al secondo posto per gradimento dopo Nicola Zingaretti: «Quando stavo nel Pci, un leader di allora mi diceva: i capi scelgono come successore uno più coglione di loro e la chiamano continuità. Poi a volte si sbagliano e scelgono uno più intelligente, e allora lo chiamano rinnovamento. Ecco, io voglio il rinnovamento» (a Claudio Tito). Pochi giorni dopo, però, il 5 dicembre, anche in seguito alla diffusione di voci circa una possibile scissione dei renziani dal partito, Minniti ritirò la propria candidatura: «Quando ho dato la mia disponibilità alla candidatura, […] quella scelta poggiava su due obiettivi: unire il più possibile il nostro partito e rafforzarlo per costruire un’alternativa al governo nazionalpopulista. Resto convinto in modo irrinunciabile che il congresso ci debba consegnare una leadership forte e legittimata dalle primarie. Ho però constatato che tutto questo con così tanti candidati potrebbe non accadere. Il mio è un gesto d’amore verso il partito. Si è […] appalesato il rischio che nessuno dei candidati raggiunga il 51 per cento. E, allora, arrivare così al congresso dopo un anno dalla sconfitta del 4 marzo, dopo alcune probabili elezioni regionali e poco prima delle europee, sarebbe un disastro». Coerentemente, in seguito Minniti annunciò il suo voto a favore di Zingaretti, risultato poi il vincitore con il 66% dei consensi • Sposato, due figlie. «Al liceo si ruppe il femore e perse tutti i capelli: lui pensava che la sua giovinezza fosse sfregiata, però poi ha sposato la ragazza più bella di Reggio Calabria, Mariangela Sera» (Sebastiano Messina) • Possiede «una moltitudine di modellini di aeroplani, jet da combattimento di ogni foggia e colore, riproduzioni su scala, che poggiano su un mobile e che Minniti si porta in dote in ogni suo spostamento. La sua passionaccia, ripete con gli occhi che ricordano quegli anni, era “molto forte”» (Falci) • «Colleziona orologi. Fa un uso scaramantico di quest’ultimi, e li cambia frequentemente per sintonizzare gli eventi con la buona sorte. Piace molto alle donne per il suo charme da milite» (Pietrangelo Buttafuoco) • «Lui è uno così, strano, un po’ pazzo, con la scintilla negli occhi. Uno che sente Lou Reed al buio, Street Hassle, e s’indentifica col Sindaco del Village, che purtroppo non c’è più. A Minniti le entrate delle grandi occasioni verrebbero bene come le faceva Lou Lou. Magari senza sculettare, ma sulle note di Sweet Jane» (Stefano Pistolini) • «Discreto, riservato, Minniti non ama i riflettori né i social media: niente pagina Facebook e neppure profilo Twitter. Alle parole preferisce i fatti. Ha svecchiato, per esempio, l’immagine delle nostre spie. Ha voluto il declassamento degli atti coperti da segreto e ha puntato all’assunzione di trenta giovani selezionati dalle università su settemila curriculum. Tutto ciò dopo che i servizi segreti avevano svolto una serie di presentazioni nelle varie facoltà. Minniti ha inoltre organizzato una commissione indipendente di analisi contro l’estremismo islamico. Convinto che per combattere il nemico occorra imparare a conoscerlo» (Grazia Longo) • «Il politico che da anni è il punto di riferimento degli 007 italiani. “Marco è stimato ed è uno che sa”, dicono gli uomini che gli sono più vicini, riferendosi alla sua profonda conoscenza dell’intelligence e dei suoi meccanismi. Altri, invece, indicano proprio nel “sapere”, legato ai lunghi anni di lavoro ai vertici della sicurezza nazionale (sottosegretario con delega ai servizi in vari governi, viceministro dell’Interno, ministro ombra ai tempi del Pd veltroniano), la fonte del suo potere. “È il Cossiga degli anni Duemila”, dicono i detrattori. “Quando i compagni di viaggio cercano di autonomizzarsi o di prendere potere, scatta sempre una buona inchiesta che li tiene sotto schiaffo. E sono in molti a pensare che dietro queste inchieste ci sia spesso la mano di Marco…”, scrive il sito de “LaC News 24”, una tv calabrese molto vicina ad ambienti Pd. Veleni in riva allo Stretto ai quali Minniti è abituato» (Enrico Fierro) • «Era nel destino di Marco Minniti essere ministro dell’Interno. Di formazione comunista e scuola dalemiana, impasto ragionevole di pragmatismo e cinismo, temperamento schivo, lontano da mondanità e riflettori, è uno che parla poco e si fa vedere ancora meno, non ha problemi a usare il pugno duro come farebbe la destra ma mai tradirebbe l’impegno di difendere la libertà di manifestazione e di espressione anche quando la tensione è acuta. È seriamente innamorato di quello che fa, ha grande attenzione per la cultura di intelligence e le sue attività, per lui un ministero non vale l’altro» (Lanfraco Pace). «Fare il ministro dell’Interno era il suo sogno, si sentiva predestinato all’incarico, e per spiegarlo una volta ha tirato in ballo la cabala: lui è nato il 6/6 e ha giurato da ministro il 12/12, data di nascita della madre, a testimoniare il segno misterioso di una protezione e di un legame intimo tra la famiglia, la politica, lo Stato, i suoi orizzonti di riferimento» (Damilano) • «Ha risolto l’“emergenza” migranti quando si poteva ancora definire tale, […] si è appuntato al petto la medaglia del meno-ottanta-per-cento di sbarchi nel giro di un anno, […] conosce gli apparati di sicurezza come pochi e vanta una rete di contatti internazionali di primo piano. Celebrato dalla stampa internazionale (“The Lord of the Spies” per il New York Times, il “Minniti Method” per l’Economist, il burattinaio della “Desert Diplomacy” per Politico), Minniti è un battitore libero, un solista di partito» (Annalisa Chirico). «“Non ci sono i minnitiani”, assicura chi lo conosce bene. “È un uomo legato al partito, più che a un leader”. Però sono pronti a giurare che in Calabria […] può vantare “un forte consenso popolare” e un serbatoio di voti non indifferente. “Più di tanti leader mediatici”» (Marco Fattorini) • «Minniti ha tirato fuori un episodio del 1999, e cioè di quando, da “giovane sottosegretario alla presidenza del Consiglio” (governo D’Alema), si era recato a Bologna per un’iniziativa politica sulla sicurezza ed era arrivato “armato di statistiche non molto diverse da quelle che abbiamo oggi e che indicavano i delitti cosiddetti predatòri in calo”. E aveva concluso spiegando che non vedeva “dove fosse il problema”: “Un vecchio compagno si alzò dalla platea e mi disse: ‘Se vieni qui a raccontarci le statistiche, non hai capito niente di noi, di Bologna e del Paese’. Per inciso, a Bologna vinse Guazzaloca, e io quella lezione non l’ho dimenticata. E suona così. Io non posso combattere la paura biasimando chi ha paura. Io devo aiutarlo a liberarsi dalla paura. La sicurezza è un sentire. […] Io sto con chi prende l’autobus tutte le mattine. Io devo riuscire a sentire quello che prova lui. Non chi ha tre auto di scorta come me. La sicurezza è un problema che colpisce i deboli. Perché i ricchi, la sicurezza, se la comprano. È di destra stare con i più deboli…? Io, da uomo di sinistra quale sono e ritengo di essere, ho il problema di includere. Fosse anche un solo cittadino. Ho l’obbligo di non abbandonarlo alla paura, che è il sentimento che distrugge prima una democrazia e poi le ragioni dello stare insieme”» (Rizzini). «La sicurezza si basa su due cardini: intelligence e territorio. Pattuglie, ma anche illuminazione pubblica, lotta al degrado, sviluppo urbanistico. Il Bronx, sempre evocato nell’immaginario collettivo come un paragone negativo, oggi è quasi un quartiere modello». «"Non abbiamo risposto a due grandi sentimenti: la rabbia e la paura. […] I più deboli si sono sentiti abbandonati. Anzi, addirittura biasimati. Quello spazio è stato colmato dai nazionalpopulisti. Basta vedere quel che è accaduto nelle nostre periferie. […] Mai come in questa fase il Pd è l’unico argine democratico a questa maggioranza nazionalpopulista". E come si costruisce concretamente questo argine? "Su otto parole chiave: sicurezza e libertà, sicurezza e umanità, interesse nazionale ed Europa, crescita e tutele sociali. I nazionalpopulisti contrappongono queste parole e impongono una scelta, noi dobbiamo conciliarle. Dobbiamo farlo sapendo che senza l’Ue – che va cambiata profondamente – non si affrontano le questioni poste dalla globalizzazione. Una grande Italia in una grande Europa"» (Tito). «La maggioranza ha bloccato alla Camera persino la possibilità di una commissione d’inchiesta sulle periferie urbane. Una commissione che nella scorsa legislatura esisteva, e aveva fatto un lavoro eccezionale. Mi ha impressionato che questo evento non abbia avuto nessuna eco pubblica, come si fosse trattato di un comunissimo fatto di meccanica parlamentare. Non lo era. Non lo è. Si capisce invece che per questo governo il tema delle periferie non esiste. Loro hanno preso molti voti in quei luoghi delle nostre città, e ora non se ne occupano. Teoricamente questa è un gigantesca contraddizione di cui la sinistra dovrebbe occuparsi» • «C’è una evidente correlazione tra terrorismo e mancata integrazione. Sull’immigrazione si giocano gli equilibri dentro le democrazie occidentali nei prossimi anni. Non è un tema di ordine pubblico, né può essere affrontato con soluzioni facili, spot. La visione riformista deve essere insieme complessa e popolare. Riformismo, secondo me, significa avere una visione, e intorno a questa visione costruire un consenso. Fuori da questo campo ci sono i fascismi e i populismi». «Ci vuole una visione complessiva. […] Uscire dagli slogan e abbracciare una visione generale del tema immigrazione. In primo luogo devi contrastare il traffico di essere umani. Poi devi capire che da qui ai prossimi vent’anni i destini dell’Europa e dell’Africa saranno intrecciati. Infine devi creare dei corridoi umanitari e dei percorsi legali per l’immigrazione. Ingressi regolati con una nostra presenza nei Paesi di provenienza. L’immigrato si presenta al consolato, viene a sapere di che tipo di manodopera necessita l’Italia, e a quel punto entra all’interno di un meccanismo regolato. Chi arriva in Italia deve essere già dentro un percorso di lavoro e di integrazione. […] La sicurezza della nostra democrazia nei prossimi anni si gioca sull’integrazione. Al contrario, con quello che io chiamo il “decreto insicurezza”, il governo ha scelto la strada della illegalità. Che non è nuova. In passato altri Paesi si sono cimentati su questa stessa strada, e hanno creato il brodo di coltura su cui poi è nato il terrorismo islamista: i quartieri ghetto come Molenbeek, a Bruxelles. La stragrande maggioranza degli attentati degli ultimi anni in Europa è figlia di un’integrazione sbagliata» • «Ho passato anni importanti come autorità politica dei servizi segreti: un lavoro nel quale il massimo successo rivendicabile è quello che nessuno sa che cosa hai fatto».