Corriere della Sera, 5 giugno 2019
Se la competitività cala, il governo cade
L’istituto Imd di Losanna ha pubblicato la classifica 2019 della competitività di 63 Paesi. Nell’ultimo anno l’Italia è scesa dal 42esimo al 44esimo posto, scavalcata da Indonesia e India. La misura è basata su una media ponderata di 224 variabili e 62 informazioni. Il metodo può esser criticato perché non considera l’interdipendenza tra le variabili e perché impiega oltre a statistiche ufficiali anche opinioni (fiducia di operatori e mercati). Tuttavia, è riconosciuto attendibile per valutare l’attrattività di un Paese, ovvero la sua capacità di garantire alle imprese l’efficienza del sistema in cui muoversi secondo le regole del mercato, senza che la mano pubblica invada il terreno di gioco. Per trovare la miglior graduatoria dell’Italia (30esimo posto), dobbiamo risalire al 1999. Poi c’è stato un processo di deterioramento senza freni. Per propria incultura e retaggio degli anni Trenta del Novecento, il nostro Paese ha sofferto più degli altri il passaggio alla modernità e l’abolizione negli anni Novanta di tutti gli strumenti di protezione dello Stato: dagli istituti pubblici di credito speciale alle barriere doganali e tariffarie, alle partecipazioni statali e, solo in fine, aggancio della lira al marco e adesione all’euro, con l’impossibilità di nuove svalutazioni competitive della lira. Quelle imprese che ce l’hanno fatta da sole, oggi sono fortissime e danno più lavoro. È mancato invece un governo incentrato su un progetto di recupero della competitività. Dall’andamento negli ultimi quindici anni si desume che: molti governi sono caduti quando la competitività è peggiorata, quasi tutti all’inizio hanno dato una discreta spinta (Conte no), poi hanno tradito le attese, le vette (relativamente parlando) l’hanno raggiunta Prodi nel 2007, Berlusconi a inizio 2010, Renzi nel 2017. Si evince anche l’imminente fine del governo sovranista, con la sua concezione terrapiattista della competitività.