Avvenire, 5 giugno 2019
Estremo Oriente: lavoro o schiavitù?
Nel suo complesso, la regione Asia-Pacifico è attraversata da alcuni dei maggiori corridoi migratori del pianeta. A incentivarne l’uso, le disparità di reddito e di opportunità, la situazione demografica, come pure l’impatto del clima. L’avanzata connettività e integrazione regionali contribuiscono a una maggiore mobilità e gestione del fenomeno migratorio ma anche al suo sfruttamento. Un’area di immensa vastità e complessità, casa del 60% della popolazione umana, ovvero quasi 4,5 miliardi di individui.
Può sorprendere che «dei 258 milioni di migranti nel mondo» indica l’Organizzazione internazionale delle migrazioni (Oim), «circa 40 milioni vivono nella regione Asia-Pacifico e 77,2 milioni di persone nate nella regione si trovano al di fuori dei loro Paesi di origine». D’altra parte, sottolinea l’Oim, 17 delle 31 megalopoli del pianeta si trovano in Asia-Pacifico e sono un magnete potente per la crescente mobilità continentale e globale.
La “molla” all’emigrazione è infatti anzitutto economica. Nel 2017 le rimesse dei lavoratori all’estero hanno totalizzato 247 miliardi di dollari, a conferma della valenza del fenomeno. Nell’area si trovano sette tra i dieci Paesi al mondo con il più alto afflusso di denaro proveniente dai migranti che rappresenta è una delle voci più consistenti, se non la prima, di segno positivo nei bilanci di India (dove sfiora i 70 miliardi di dollari annui), Cina, Filippine, Pakistan, Vietnam, Bangladesh, Nepal… con altri a seguire in termini assoluti oppure in proporzione al Pil.Questo non consente di ignorare però il lato oscuro della migrazione. Il 62% di quanti vivono in condizioni di moderna schiavitù nell’Asia-Pacifico sono emigranti, perlopiù impiegati nell’“industria” del sesso, nell’agricoltura, nell’edilizia, nella pesca e nell’ospitalità. Un dato che si traduce in un terzo delle persone vittime del traffico di esseri umani assistite dall’Oim nel mondo.
Sono flussi imponenti, quelli che si concretizzano all’interno dell’Asia o verso l’esterno e che non ignorano alcuna delle motivazioni prevalenti nella migrazione globale. Ricerca di impiego e benefici economici, ma anche di asilo, di una nuova patria oppure di sicurezza in fuga da conflitti, da catastrofi naturali e – in modo crescente – dai cambiamenti climatici. Basti pensare che l’80% degli spostamentidovuti a eventi naturali disastrosi si collocano in Asia- Pacifico, dove sono sovente le aree a più alta densità demografica e a maggiore attrazione immigratoria a essere particolarmente esposte.
Migrazione temporanea, circolare e irregolare sono ugualmente praticate nella regione, con quasi la metà dei partecipanti di sesso femminile, ancor più esposte all’offerta di impieghi a medio o basso contenuto tecnologico e intellettuale, in particolare nei settori informali. Per quanto riguarda la migrazione regolare per lavoro, questa avviene attraverso un complesso sistema di enti pubblici e privati, ufficiali e ufficiosi, peraltro raramente all’altezza dei loro compiti di selezione dei migranti e di tutela di tutte le parti coinvolte.
Se in altre aree geografiche il fenomeno migratorio è soprattutto verso l’esterno, quello asiatico coinvolge anche ampli flussi interni, con una importante migrazione non regolamentata facilitata da confini terrestri e marittimi poco controllabili. Un flusso che avviene perlopiù tra Stati confinanti, ma che da tempo si proietta anche molto lontano, via terra e via mare con il supporto di collaudate reti di trafficanti locali, a loro volta sovente collegate a altre transnazionali.
Questo è il caso, per esempio, del Sudest asiatico, dove, ricorda l’esperta Rosalia Sciortino «almeno sei milioni e mezzo di migranti hanno lasciato i Paesi più svantaggiati per raggiungere sia le economie più sviluppate (Singapore), sia le medie potenze economiche come la Malaysia e, specialmente, la Thailandia. Questo modello economico sta tuttavia scontrandosi con due processi: l’invecchiamento della popolazione e il cambiamento dello stile di vita dei giovani, i quali ricercano lavori più qualificati. È emersa così una crescente domanda di manodopera straniera a bassa remunerazione che attira soprattutto lavoratori provenienti dai Paesi vicini meno sviluppati e con popolazioni più giovani, a volte meno istruite». Una situazione – che sembra collidere con le politiche di integrazione economica ma anche di espansione del mercato del lavoro regionale – che presenta quesiti e opportunità non ignote alla stessa Europa dove le risposte alla sfida migratoria e soprattutto alla sua evoluzione mostrano limiti sempre più evidenti.