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 2019  giugno 04 Martedì calendario

Il Bilderberg raccontato da chi c’è stato

Cinque anni fa i post sui social durante il meeting Bilderberg erano 20.000, nel 2019 sono stati poche centinaia. I contestatori convinti che nell’hotel Fairmont a Montreux, in Svizzera, si prendessero decisioni segrete erano una decina di pacifici Gilet gialli e quattro blogger. Eppure questo evento, il numero 67, continua a far discutere. Io ho partecipato, da giovedì sera a domenica. L’aspetto più dibattuto è la “segretezza”, anche se online viene pubblicata la lista sia dei partecipanti che degli argomenti. I meeting del Bilderberg iniziano nell’omonimo hotel nel 1954 a Oosterbeek, su iniziativa del principe d’Olanda Bernardo. Durante la Guerra fredda si moltiplicano le iniziative per consolidare i rapporti tra élite di Europa e Stati Uniti in chiave anti-comunista. Della maggior parte di questi programmi oggi resta poco, ma il Bilderberg resiste e fa discutere. Perché nessuno capisce bene cosa sia: non è un think tank, non produce documenti, non è neppure un’organizzazione (c’è solo una struttura amministrativa e un comitato per gli inviti), non si diventa “membri” come invece accade per l’Aspen Institute o il Rotary. È un evento che nasce e muore in un weekend.
Ogni anno vengono selezionati 130-150 partecipanti: alcuni sono vecchi saggi la cui opinione è sempre utile, come l’ex segretario di Stato americano Henry Kissinger o l’attivista per i diritti civili degli affroamericani e uomo d’affari Vernon Jordan, altri sono persone con un incarico di rilievo (il genero di Donald Trump e inviato per il Medio Oriente Jared Kushner), altri esperti dei temi in agenda (Nick Bostrom per l’intelligenza artificiale), altri ancora leader emergenti (Stacey Abrams, senatrice della Georgia). C’è anche qualche giornalista, da Lilli Gruber ai direttori di Bloomberg ed Economist. Alcuni membri facoltosi finanziano l’organizzazione, ciascuno dei partecipanti si paga viaggio e albergo (a cinque stelle).
E la segretezza? Per rispondere bisogna spiegare cosa si “fa” al Bilderberg. Questi meeting sono l’apoteosi della cultura americana del networking. Non solo scambio di biglietti da visita, ma costruzione di rapporti personali come ponte tra culture, professioni e idee diverse. Tutto è pensato per questo. Fin dalla prima cena con free sitting. I posti a tavola non sono assegnati, puoi trovarti accanto a Kissinger come a Patrice Caine, ad della Finmeccanica francese Thales o a Robert Rubin, ex segretario al Tesoro Usa. Il clima è informale, tutti parlano con tutti, anche con il re dell’Olanda Willem-Alexander.
Venerdì il primo panel comincia già alle 8 del mattino, l’ultimo finisce alle 19, un paio di pause caffè e un rapido pranzo a buffet. Un moderatore, due-tre relatori, niente slide, mezzora di interventi e poi dibattito. Relatori e pubblico, tra un panel e l’altro, si scambiano di ruolo. Kissinger, a 96 anni, sale due volte sul palco, una volta da intervistato, l’altra da intervistatore. Quando la domanda dal pubblico supera il minuto, scatta un lampeggiante rosso. I posti sono in ordine alfabetico: il mio vicino di banco è lo storico di Harvard, Niall Ferguson. Ci deve essere una qualche gerarchia segreta e implicita per le domande, lui riesce sempre a farsi dare la parola, io no.
Brexit, Intelligenza artificiale, minacce cyber e poi Cina, tanta Cina. Blogger e curiosi si chiedono: “Che cosa ha da dire il Bilderberg su questi temi?”. La risposta è difficile. La platea è abbastanza omogenea (europei o americani, anglofoni, cosmopoliti), ma di rado ci sono due che la pensano allo stesso modo. Ci sarà un secondo referendum in Gran Bretagna oppure ormai l’uscita dall’Ue è certa e bisogna solo auspicare che sia anche rapida? La Russia di Vladimir Putin è un vero pericolo o è aggressiva per mascherare le sue fragilità? Ognuno ha un’opinione diversa, nessuno sente l’esigenza di arrivare a una sintesi. Ne azzardo una io, a bilancio dei quindici panel. L’Europa è ai margini dei pensieri degli Stati Uniti, concentrati sulla Cina: gli americani hanno confidato per qualche anno che insieme al benessere a Pechino arrivassero riforme, democrazia e mercato. Ora hanno capito che non succederà e reagiscono di conseguenza. L’Ue tentenna.
Nella sala conferenze dell’hotel Fairmont non c’è Greta Thunberg, ma banchieri, imprenditori e ministri sembrano consapevoli del fatto che il cambiamento climatico o si ferma ora o sarà troppo tardi. E che le tecnologie verdi sono una opportunità di business, purché l’uscita dal carbone e dalle energie fossili avvenga senza troppi traumi. Poi c’è l’intelligenza artificiale: “Non è una questione filosofica, ma militare”, riassume un partecipante. Ricorre l’analogia con il progetto Manhattan. Ma Enrico Fermi lavorava all’atomica per il governo Usa, non per aziende della Silicon Valley guidate da nerd che non hanno finito il college. Alcune parole che riempiono giornali e tv non vengono mai citate: populismo, migranti, disuguaglianza.
E l’Italia? È nell’agenda di alcuni partecipanti, ma solo per le vacanze in Toscana. A cena, qualcuno chiede “che farà adesso Salvini?”. Altri se Matteo Renzi, qui ancora popolare, “avrà un futuro in politica”. Renzi, che ha imparato l’inglese e continua a essere percepito come il giovane premier riformatore ma sconfitto, era al suo primo Bilderberg.
Ma torniamo alla segretezza. La regola è “Chatam House”: si possono usare le informazioni, ma non attribuire virgolettati ai singoli partecipanti. Nel caso del Bilderberg un principio standard per i seminari a porte chiuse viene contestato: i cittadini non hanno forse il diritto di sapere? Due risposte. Primo: tutti i partecipanti sono già attivi nel dibattito pubblico, dove però devono pesare le parole. Se un banchiere chiede informazioni sull’intelligenza artificiale, qualche analista penserà che vuole investire nel settore, se un ministro esprime un dubbio sull’Iran sembrerà una posizione dell’intero governo. La formula del Bilderberg permette interlocuzioni senza conseguenze (e senza gaffe). Ma c’è una seconda ragione: il meeting si regge proprio sul chiudere persone di mondi diversi insieme per qualche giorno, le discussioni iniziano al cocktail, proseguono nella sala conferenze, si sviluppano a cena, finiscono al bar dell’hotel con whiskey che gli esperti giurano essere notevoli. Non c’è differenza tra “lavori” e pause. Quella che dall’esterno pare segretezza, da dentro risulta assenza di distrazioni e formalità. Manager, primi ministri e accademici che di norma non hanno cinque minuti per una telefonata, per un intero weekend si dedicano a riflessioni ad ampio spettro e incontri con persone che mai avrebbero incrociato altrove. La “selezione all’ingresso” dovrebbe garantire che non sarà tempo sprecato. Di complotti, io non ne ho visti. A parte un bigliettino allungato con discrezione sospetta al mio vicino Niall Ferguson. Ma era solo l’invito a sedere a cena al tavolo di uno degli organizzatori.
L’ultima sera l’aperitivo è su una barca sul lago di Ginevra, la cena preparata servita in un castello. La riservatezza limita l’ostentazione, ma il Bilderbeg è eccome un appuntamento di élite. Anzi, è il laboratorio di una nuova élite transatlantica oggi non più prodotta spontaneamente dalla globalizzazione. Tra Brexit, Trump e caos nell’Ue, le due sponde dell’Atlantico sono più lontane ora che al tempo del primo meeting nel 1954.
Se il comitato che seleziona i partecipanti ha avuto fiuto, qualcuno dei presenti a Montreux accederà a posizioni ancora più alte. Magari il finlandese Erkki Liikanen prenderà il posto di Mario Draghi alla Bce, forse Stacey Abrams sarà la nuova stella dei Democratici Usa. O forse Renzi smetterà di fare discorsi a pagamento in giro per il mondo e fonderà un suo partito. E allora le teorie del complotto potranno ricominciare.