il Fatto Quotidiano, 4 giugno 2019
Maurizio Avola. Il pentito racconta che nel 1993 i corleonesi volevano uccidere il padrino catanese perché considerato troppo moderato
Maurizio Avola, ex uomo d’onore di Cosa nostra, diventato collaboratore di giustizia nel 1994, è nato a Catania (Sicilia).
Il boss era stato pericolosamente “posato”, come si dice in gergo mafioso, cioè abbandonato, messo da parte. I corleonesi volevano uccidere lo storico padrino di Cosa Nostra catanese, Nitto Santapaola, perché considerato moderato dagli stragisti. È per questo che il fedelissimo boss Marcello D’Agata pensa bene, col consenso del nuovo capo di Cosa Nostra catanese Aldo Ercolano, di rivolgersi ad Antonio Manganelli, allora capo dello Sco (il Servizio centrale operativo della polizia) e indicargli il luogo dove Nitto Santapaola si nascondeva per farlo arrestare.
La rivelazione clamorosa sull’arresto del boss catanese, avvenuto il 18 maggio 1993, arriva dal pentito Maurizio Avola che ai magistrati di Reggio Calabria e Caltanissetta sta raccontando le sue nuove verità che, se riscontrate, potrebbero sconvolgere la geografia giudiziaria antimafia degli ultimi decenni. Due settimane fa è stato sentito dalla Corte d’Assise di Reggio Calabria nel processo “’ndrangheta stragista”: “D’Agata con l’accordo di Aldo Ercolano prese contatti con Manganelli per salvare la vita a Santapaola – ha raccontato Avola ai giudici –. Io posso dire che già in precedenza Santapaola era sfuggito alla cattura perché avvisato prima, e in quella circostanza D’Agata ebbe a dirmi che era meglio lasciarlo stare dov’era e non informarlo del blitz”. All’epoca, nella geografia di Cosa nostra catanese, D’Agata era il capo di Avola.
Ma perché uccidere Santapaola? Perché uccidere un mafioso di rango che per dimostrare la propria fedeltà alla causa, racconta sempre Avola, due anni prima aveva messo il proprio figlio Vincenzo a disposizione del gruppo di fuoco che uccise il giudice Scopelliti? Santapaola, secondo il pentito, pagava la sua moderazione e il suo continuo opporsi ai delitti eccellenti nella zona etnea e, in generale, alla linea stragista. Per Nitto le azioni eclatanti disturbavano i grandi affari dei clan.
C’è uno strano episodio che fa comprendere a Marcello D’Agata che il padrino è in pericolo: un giorno, siamo nel novembre del 1992, si tiene una riunione segretissima nelle campagne di Belpasso tra boss palermitani, tra cui Gioacchino La Barbera il “Malpassotu”, il boss di Belpasso Giuseppe Pulvirenti e Santo Mazzei, il mafioso catanese arcinemico di Santapaola. Una riunione in territorio catanese senza che nessuno del gruppo Santapaola ne sappia nulla. Ma qualcuno parla ed è il genero del “Malpassotu”, che riferisce tutto a D’Agata. Bisogna subito fare qualcosa, senza fare troppo rumore però. Da lì l’idea di cercare un aggancio con Manganelli. Se il contatto è avvenuto telefonicamente potrebbe esserne rimasta traccia nelle intercettazioni dell’epoca; dovrebbe anche essere possibile ricostruire i colloqui e verificare la notizia fornita da Avola nelle relazioni di servizio che sicuramente Manganelli avrà redatto.
Ma che fine ha fatto Marcello D’Agata? Adesso ha 70 anni, un ergastolo sulle spalle e pare sia in piena crisi mistica. Come accadde vent’anni fa al boss Pietro Aglieri, pentito davanti a Dio ma per nulla intenzionato a diventare collaboratore di giustizia. Nel covo di “U signurinu” al momento dell’arresto trovarono una biblioteca di testi filosofici e religiosi trovati ai lati di una cappella privata. D’Agata invece, nel carcere di Opera dove è rinchiuso, dipinge quadri religiosi e disegna francobolli di Natale per il Papa, come ha raccontato a Famiglia cristiana nel dicembre 2018.
D’Agata non è più al 41 bis. Un altro futuro collaboratore di giustizia? Troppo presto per dirlo. Certo è che qualcosa l’ha detta. È accaduto nell’interrogatorio del 23 gennaio 2019 davanti ai magistrati della Dda di Caltanissetta. D’Agata è indagato a Caltanissetta insieme ad Avola per avere trasportato da Catania a Termini Imerese parte dell’esplosivo utilizzato per la strage di Capaci insieme a due detonatori. E D’Agata inizia il suo interrogatorio con queste parole: “Avendo avuto notizia di ciò che mi sta contestando intendo rispondere per un dovere di coscienza”. Smentisce Avola su molti punti però: “Per quelle che sono le mie conoscenze sulla strage di Capaci io dissi ad Avola che essa rappresentava la fine di tutto perché non ci si poteva mettere contro lo Stato… Per quanto riguarda ciò che è avvenuto prima io e Avola non potevamo sapere nulla perché Cosa Nostra opera per compartimenti stagno”; salvo poi aggiungere “Io e Avola eravamo incaricati a recuperare i pizzini dei palermitani lungo le autostrade, dopo il pentimento di Calderone Antonino, di cui era parente Salvuccio Marchese, esponente di Cosa Nostra di Catania che, in precedenza, svolgeva questo incarico”. Strano per un boss non pentito fare queste ammissioni.