4 giugno 2019
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Biografia di Ken Follett
Ken Follett (Kenneth Martin F.), nato a Cardiff (Galles) il 5 giugno 1949 (70 anni). Scrittore. Oltre 160 milioni di copie vendute nel mondo. «Ci sono scrittori arrabbiati che, in un modo o nell’altro, vogliono cambiare le cose, ce ne sono altri che desiderano sperimentare con la forma e lo stile. Li ammiro, ma queste ambizioni non fanno per me. Preferisco tenere il lettore con il fiato sospeso» • Primo dei tre figli di un ispettore della tasse, che aveva impostato la vita dell’intera famiglia secondo le rigide regole del movimento evangelico cui aveva aderito. «Da bambino non avevo il permesso di andare al cinema. Ce n’era uno in Cowbridge Road, a Cardiff, non lontano da casa mia, e quasi tutti i ragazzi che conoscevo ci passavano la domenica mattina a guardare film senza pretese, serie con i cowboy e i razzi spaziali, Robin Hood e il cane Lassie. […] In compenso frequentavo la biblioteca pubblica, che stava nella stessa strada del cinema, un centinaio di metri più in là. È probabile che in questo modo abbia imparato molto di più rispetto ai miei amici che andavano al cinema, ma era un fatto che all’epoca non apprezzavo troppo. Il divieto, al contrario, mi lasciava indignato. Nel nostro ambiente, ci chiamavamo “la Congregazione” oppure, a volte, “la Chiesa di Dio”, ma il mondo ci conosceva come i Plymouth Brethren, i Fratelli di Plymouth. Il movimento si era separato dalla Chiesa d’Inghilterra nel XIX secolo. […] Mio padre e suo fratello avevano sposato due ragazze che erano cugine tra loro, così da congiungere tre famiglie già abbastanza ampie. Quasi tutti i membri del clan che ne risultava appartenevano alla Congregazione, compresi i miei quattro nonni. Erano proibite le nozze con persone che venivano dall’esterno. Ogni setta ha bisogno di un suo gergo. Noi non avevamo chiese ma “sale”, le funzioni si chiamavano “incontri”, la congregazione era “l’assemblea” e gli anziani prendevano il nome di “sovrintendenti”. Di domenica si andava all’incontro per tre volte, e in alcuni casi anche di sabato pomeriggio. Gli adulti partecipavano ad almeno un’altra serata durante la settimana. Avrei anche potuto farcela, ma da una certa età cominciai a non sopportare più il rigido puritanesimo della setta. In casa non avevamo televisore, né radio o giradischi. Erano tutte cose “mondane”, termine che per noi rivestiva grande importanza. […] Un’altra brutta parola era “piacere”. Non si frequentavano teatri, concerti o eventi sportivi. Ricordo ancora di quando mi fu spiegato che era più che giusto andare alla fiera dell’auto per acquistare un pullmino per l’evangelizzazione, ma sarebbe stato sbagliato passare una giornata là dentro solo per ammirare le macchine, perché in quel caso non sarebbe stato altro che “piacere”. Anche andare nella chiesa di un’altra denominazione era un peccato bell’e buono, specie se si trattava di un altro ramo dei Fratelli. […] Ero un adolescente, e fui molto consolato dallo scoprire di non essere il primo a patire i tormenti della coscienza. La crisi fu scatenata dall’affermazione dottrinale secondo cui non siamo cittadini di questo mondo. Un’altra versione del medesimo editto viene dalla Seconda lettera di Paolo ai Corinzi: “Non v’accoppiate con gl’infedeli”. Il riferimento è al giogo, l’attrezzo di legno che, sistemato sulla nuca di una coppia di animali da tiro, permette loro di arare insieme. Paolo, a sua volta, riprende una disposizione del Deuteronomio: “Non arar con un bue, e con un asino, insieme”. I Fratelli erano troppo importanti per mescolarsi con il resto dell’umanità, che vaga nell’errore. Guidati da un sovrintendente, un gruppo di adolescenti della nostra assemblea cominciò a visitare un ricovero per anziani una volta alla settimana, il mercoledì sera. Giocavamo a scacchi con i residenti, li ascoltavamo raccontare dei vecchi tempi. Gli anziani ci aprivano la mente, e noi forse portavamo un po’ di luce nelle loro vite. Incredibilmente, questa attività fu ritenuta dagli altri sovrintendenti un esempio di “giogo ineguale” e venne perciò proibita. All’epoca avevo sedici anni ed ero perfettamente in grado di capire che si trattava di una totale assurdità. Lasciai la Congregazione e non tornai mai più. Ero ancora cristiano: un cristiano tormentato. In quel periodo dovevo decidere che cosa studiare all’università. Scelsi Filosofia, nella speranza che potesse aiutarmi a superare i miei dubbi sull’esistenza di Dio. Lo fece senz’altro. Allo University College di Londra la luce spietata della filosofia del linguaggio prese a splendere sulle idee di Platone, Cartesio, Marx e Wittgenstein. Non si discuteva molto di religione, ma in privato mi misi a esaminare le convinzioni religiose sulla base di criteri logici. Nessun dato di fede superò mai la prova. Al momento della laurea ero diventato ateo. Anzi, un ateo arrabbiato». «Lei negli anni Sessanta era impegnato? “Certo. Ero uno studente a Londra, pieno di rabbia per la guerra del Vietnam e di fervore per i diritti civili dei neri, che sentivamo vicini anche per la lotta contro l’apartheid in Sudafrica. Ma non sopportavo i marxisti, che mi sembravano come i miei genitori: puritani da cui rifuggire. Io credevo nel rock and roll, non certo nell’andare nelle fabbriche a insegnare agli operai il comunismo”» (Marco De Martino). Per Follett, la facoltà di Filosofia «“fu il mio primo involontario apprendistato da scrittore. […] La filosofia si occupa di questioni come: siamo seduti a tavola, ma la tavola esiste veramente? Un quesito in apparenza futile, ma che dal punto di vista filosofico va affrontato seriamente. Scrivere un romanzo, in fondo, è la stessa cosa”. Il secondo apprendistato è la carta stampata: non sapendo che fare della laurea in Filosofia, si iscrive a un corso di giornalismo, viene assunto in un giornale di provincia, il South Wales Echo di Cardiff, fa carriera, finisce all’Evening News, aggressivo quotidiano della sera londinese, e viene messo a fare il cronista mondano. “Sognavo grandi scoop politici, invece ero costretto ad occuparmi di soubrettine e pettegolezzi”» (Enrico Franceschini). «C’è stato un periodo in cui speravo di diventare un cronista importante, e poi magari direttore del Times, ma in realtà scrivevo già racconti. Mi piacciono le storie, mi sono sempre piaciute. Da quando ero piccolo scrivo e divoro libri» (a Paola De Carolis). «Com’è diventato un romanziere? “Avevo 24 anni e facevo il giornalista a Londra. Un giorno mi si ruppe l’auto e mi chiesero 200 sterline per ripararla. Mi ero appena sposato e avevo da poco avuto un figlio: pensai che scrivere racconti poteva essere un modo per guadagnare i soldi che mi servivano. Ne scrissi uno, e l’editore del mio giornale lo pubblicò. Da allora non mi sono più fermato”» (Ezio Genghini). I primi libri, però, ispirati ai romanzi di spionaggio di Ian Fleming, non ebbero alcun successo. «Erano troppo brevi. D’altronde nasco come giornalista, e quando scrivi per un pomeridiano non hai il tempo o lo spazio per raccontare l’atmosfera, i dettagli». «Penso che gli errori e i fallimenti servano molto a uno scrittore. Anch’io, con quei romanzi sbagliati, avevo appreso qualcosa, e tutte queste lezioni mi portarono a produrre qualcosa di veramente buono» (a Ranieri Polese). «Un agente letterario si convince che in lui ci sia qualcosa di buono e lo incoraggia a continuare. Finché un giorno Ken gli porta un dattiloscritto intitolato Eye of the Needle: l’agente lo legge, e gli telefona subito per consigliargli di cercarsi un buon consulente fiscale: “Ne avrai presto bisogno, con tutte le tasse che dovrai pagare”. Infatti: La cruna dell’ago vende dieci milioni di copie, e da quel momento Ken Follett non ha più tolto i panni dell’infallibile Signor Bestseller» (Franceschini). Sull’onda del successo de La cruna dell’ago (1978), avvincente storia di spionaggio ambientata durante la Seconda guerra mondiale poi trasposta al cinema nell’omonimo film di Richard Marquand (1981), seguirono, tra la fine degli anni Settanta e la prima metà degli anni Ottanta, altri romanzi di genere spionistico (Il codice Rebecca, L’uomo di Pietroburgo, Un letto di leoni), anch’essi di grande successo. Ciononostante, Follett decise di cimentarsi in un nuovo genere. «Quando dissi al mio editore che invece di una storia di spionaggio volevo scrivere un romanzo storico di mille pagine ambientato nel Medio Evo con una miriade di personaggi, incentrato sulla costruzione di una cattedrale, ho visto facce preoccupate. Una bella spy story avrebbe fatto contenti tutti, no? Poi, però. I pilastri della terra è andato come sappiamo…» (a Matteo Persivale). «I pilastri della Terra (1989) […] avvia […] l’epopea della città immaginaria di Kingsbridge e narra le vicende che ruotano intorno alla costruzione di una gigantesca cattedrale gotica. Il libro è diventato un bestseller e ha ispirato anche l’omonima serie televisiva, nel 2010. La saga avviata con I pilastri della Terra attraversa la storia dell’Inghilterra e dell’Europa dal Medioevo al Rinascimento: diventerà infatti una trilogia con il romanzo Mondo senza fine (2007), diventato anch’esso una miniserie televisiva nel 2012, e con […] La colonna di fuoco, che è ambientato al tempo della morte di Giacomo I e dell’ascesa al trono di Elisabetta I, tra giochi di potere ed epici complotti di corte. Ma non solo: Follett ha da poco concluso anche la cosiddetta Century Trilogy, composta dai romanzi La caduta dei giganti (2010), L’inverno del mondo (2012) e I giorni dell’eternità (2014). Quest’epopea è dedicata invece al Novecento» (Ida Bozzi). «I protagonisti della trilogia sono cinque dinastie di altrettanti Paesi, seguite nei loro intrecci per tre generazioni. La famiglia inglese e la tedesca hanno il sangue blu. La russa e la gallese, rosso proletario. Poi c’è quella americana, inserita nelle alte sfere del Partito democratico. Su questi pilastri si snoda la storia del Novecento narrata da Follett, che nel primo volume copre Grande guerra e Rivoluzione russa, nel secondo Depressione e Seconda guerra mondiale e nel terzo Guerra fredda e caduta del comunismo. […] Gli editori dicono che The Century è la sua consacrazione d’autore globale, ma come le è venuto in mente di imbarcarsi nella narrazione del Novecento in tre volumi? “Con Mondo senza fine avevo avuto una risposta calorosissima da editori, librai e lettori di tutto il mondo: i fan mi chiedevano un sequel, anche se quello era già il sequel di I pilastri della Terra. Io rivolevo lo stesso affetto, lo stesso calore, ma non volevo rifare un altro romanzo medievale. E allora mi sono chiesto: cos’è che mi piacerebbe scrivere e che al pubblico piacerebbe leggere come o più di Mondo senza fine? Ho scelto il Novecento perché è così vicino: mio nonno era nell’esercito britannico, nel 1916. Questa è la nostra storia. Ma, anche se lo scenario è la civiltà occidentale, gli eventi della guerra e della Rivoluzione russa coinvolgono il Giappone, la Cina, il mondo: la ricaduta è globale”» (Paola Zanuttini). Ad oggi, l’ultimo suo romanzo pubblicato è La colonna di fuoco (2017), capitolo conclusivo della saga di Kingsbridge. «Stavolta il grande Ken Follett, uno dei più potenti narratori in attività, lascia un senso di già letto. […] L’altra trilogia dell’autore, la Century, composta da La caduta dei giganti, L’inverno del mondo e I giorni dell’eternità, è una delle più belle storie del Secolo breve. Nessuno come Follett sa immaginare contemporaneamente la vita di Hitler e quella di un minatore gallese, sa restituire il fascino degli anni kennediani e lo squallore della Berlino comunista. Certo è anche bravo nelle storie medievali e postmedievali, come ha abbondantemente dimostrato l’altra sua trilogia, ma il suo cuore di narratore trova la perfetta frequenza di battito nel mondo novecentesco (e nei suoi momenti più crudeli: La cruna dell’ago resta un esempio massimo). Il ritorno, subito dopo la trilogia dedicata al secolo scorso, alla saga di Kingsbridge fa apparire le vicende cinquecentesche sfocate e scolastiche. Nel racconto del Novecento di Follett scorre sangue vero, in quello del Cinquecento sgocciola la colla della cartapesta. Il confronto così ravvicinato non giova» (Antonio D’Orrico). Fino alla prima metà degli anni Duemila, prima di dedicarsi a tempo pieno alle due trilogie – il cui progetto si delineò propriamente con il secondo capitolo della saga di Kingsbridge: I pilastri della Terra era stato infatti concepito come un romanzo autoconclusivo (non a caso il suo seguito immediato, Mondo senza fine, giunse ben diciotto anni dopo) –, Follett aveva continuato a scrivere numerosi romanzi di grande successo, per lo più di genere thriller: tra questi, Una fortuna pericolosa (1993), Il terzo gemello (1996), Il martello dell’Eden (1998), Codice a zero (2000) e Nel bianco (2004). Anche il prossimo libro di Follett, ancora in fase di scrittura, dovrebbe essere un romanzo storico, una sorta di prologo de I pilastri della Terra, che «parlerà di come i Normanni influenzarono gli Anglo-Sassoni nell’XI secolo perché costoro diventassero più civilizzati». «Riguardo al thriller, mi piace ancora molto, ma ha i suoi limiti: narra di qualcuno in pericolo, e nessuno può restare in pericolo per più di qualche giorno, massimo un mese. Non s’è mai visto un thriller lungo un secolo. Il romanzo storico è più impegnativo, ma dà maggiori soddisfazioni» • Due figli, Emanuele (stroncato a 49 anni dalla leucemia nel giugno 2018) e Marie-Claire, dalla prima moglie; sposato in seconde nozze con l’ex deputato ed ex ministro laburista Barbara Hubbard (classe 1942), a propria volta al suo quarto matrimonio, ha adottato i suoi tre figli, due dei quali nati dal primo marito (Jann e Kim Turner) e uno dal terzo (Adam Broer) • Laburista da sempre, proprio a un’assemblea del partito conobbe la seconda e attuale consorte, che ha raccontato così il loro primo incontro: «“Io pensai che Ken fosse un bastardo arrogante. Lui che io fossi bossy, un po’ ‘comandina’. Qualche giorno dopo lo chiamai per dirgli che secondo me era uno scrittore mediocre, ma che avrebbe potuto rendersi utile scrivendo comunicati stampa per il partito. A sorpresa lui rispose che l’avrebbe fatto volentieri, e non ci siamo più lasciati”. […] Vi dà egualmente fastidio essere definiti dalla stampa inglese “Champagne socialist”? “A Barbara, che non beve, quella definizione non piace. A me non interessa, perché adoro lo champagne, specie il Krug rosé: per fortuna ci sono i ricchi a sostenere le cause giuste, altrimenti perderemmo sempre”» (De Martino) • Fortemente contrario alla Brexit («Una decisione che mi ha fatto inorridire») • «Quando è arrivato Rupert Murdoch alla Collins, ha abbandonato la sua casa editrice, perché riteneva impensabile lavorare per chi aveva così involgarito e affossato la stampa britannica» (Irene Bignardi) • Alla moglie e al Partito laburista è indirettamente legato anche il suo parziale riavvicinamento alla religione, raccontato nel testo autobiografico Cattiva fede (Dehoniane, Bologna 2017), incentrato sul suo tormentato rapporto con il cristianesimo, dall’infanzia a oggi. «Lo scrittore ci ha ripensato. Resta ateo, ma non praticante. Anzi, no: praticante la religione, ma a modo suo. Riscopre una certa spiritualità. Certo lontana da quella assorbita da piccolo. […] “A me sono bastati tre anni per diventare ateo, ma ho speso il resto della vita per ritrovare, grazie a un improbabile girotondo, una qualche forma di spiritualità”. E così Ken Follett (che, insieme ad altri personaggi pubblici, […] si dichiarò contrario alla visita di Stato di Benedetto XVI nel Regno Unito e […] criticò il primo ministro David Cameron per aver definito la Gran Bretagna “un Paese cristiano”) continua: “Da quando ho incontrato Barbara, la mia seconda moglie, mi sono attivamente impegnato nel Partito laburista, e sono rimasto sorpreso dallo scoprire che parecchi dei nostri alleati erano cristiani devoti. […] Il mio sprezzante rifiuto giovanile dei credenti ha iniziato a provocarmi un certo imbarazzo. […] Dopo che Barbara è stata eletta deputata, ho iniziato a frequentare le funzioni religiose, come previsto nei doveri del coniuge di un parlamentare britannico, ma mi sono accorto di apprezzarlo, e ho continuato a farlo anche quando non ero obbligato. Adesso mi considero un ateo non praticante. Continuo a non credere in Dio e non faccio mai la comunione. Ma andare in chiesa mi piace. I vespri cantati sono la mia funzione preferita. A mezzo secolo di distanza dalla mia fuga dalla congregazione, oggi sono di nuovo uno che va in chiesa, non regolarmente, ma neppure in modo troppo discontinuo”. E conclude: “Andare in chiesa consola la mia anima”» (Marco Roncalli) • Amante del lusso e della bella vita senza ipocrisie, al punto di definirsi «sibaritico»: «La mia intera vita è una ribellione contro i miei genitori e le loro convinzioni: amo mangiare, bere, comprare bei vestiti, viaggiare, suono in una rock band tutti i lunedì sera… Senza i divieti di mio padre, non credo che me la sarei goduta così tanto» (a Laura Fiengo). «Ha iniziato ad amare il lusso da quando è diventato ricco? “In realtà, no: amavo lo champagne, gli abiti di sartoria e altre belle cose già prima, ma purtroppo non potevo permettermeli”. Quali “vizi” ama concedersi? “Oltre alla mia passione per lo champagne, di cui ho una cantina con oltre 2.000 bottiglie, e il buon cibo, più che altro mi piace viaggiare con tutti i comfort, e quindi, quando è possibile, volo su un jet privato e scelgo con cura i migliori alberghi, nei quali cerco di farmi riservare sempre la suite presidenziale. Inoltre ho una certa passione per le Rolls-Royce: attualmente ne possiedo un paio”» (Genghini) • «Ogni lunedì amo suonare con la mia band, i “Damn Right I’ve got the Blues”. Il mio strumento è il basso, e facciamo prevalentemente cover blues, pescando soprattutto da un repertorio anni ’50 e ’60: il mio mito è B.B. King. Quando è possibile facciamo anche qualche concerto, soprattutto ai festival musicali. E poi con i miei amici ci siamo inventati un giochetto molto divertente… Ogni tanto decidiamo insieme un drink che incontra il gusto di tutti, per esempio il Martini cocktail, e giriamo per i migliori bar di Londra per stabilire dove lo preparano meglio. E prendiamo la cosa molto seriamente: un mio amico disegnatore grafico, che è anche l’autore delle copertine dei miei libri, prepara delle schede prestampate, sulle quali esprimiamo i nostri voti per decretare il cocktail vincitore». «Con quale delle sue macchine torna a casa? “Non con la Rolls-Royce Ghost a due porte: quella di solito la guido io. Ho un’altra Rolls dello stesso colore, sempre nera e crema, una Wraith a quattro porte, per le serate che richiedono l’autista”» (De Martino) • Usa Twitter. «Twitter è per me il più importante contatto diretto con i lettori. […] Leggo i loro messaggi, e sono affascinato dalla velocità impressionante con la quale avviene la comunicazione. E, se venti persone rispondono a un mio tweet, riescono persino a distogliermi per qualche minuto dallo scrivere» (ad Alessio Jacona) • Possiede un pezzo del Muro di Berlino. «Lo tengo in giardino. […] Me l’ha regalato il mio editore tedesco quando ho compiuto 65 anni» • «Con i suoi capelli bianchi curati, gli occhi arzilli e la camicia azzurra cifrata è l’opposto dello stereotipo dello scrittore torturato e trasandato» (De Carolis) • «Ken Follett è l’unico erede contemporaneo di Giuseppe Verdi. I suoi romanzoni sono come le opere liriche, un susseguirsi di scene madri che lascia senza fiato e dove è sempre questione di vita o di morte, di sangue sudore e lacrime. Sì, per essere esatti è un Verdi risciacquato nel patriottismo di sir Winston Churchill. […] Ken Follett è anche […] un Alberto Manzi british. I suoi romanzi sono ottimi per ripassare la storia. […] Per Follett un romanzo deve essere anche un sussidiario, deve essere utile oltre che appassionante. Leggere i romanzi deve servire a imparare qualcosa. Follett, per finire, è l’ultimo socialista rimasto al mondo, l’ultimo laburista che somiglia ai laburisti di una volta. E, se pensiamo che è anche l’ultimo romanziere che scrive romanzi popolari e avvincenti come quelli che si scrivevano una volta, allora gli si deve il rispetto dovuto a un dinosauro miracolosamente sopravvissuto fino ai nostri giorni» (D’Orrico) • «Non sbaglia un titolo, non lascia nulla al caso. Prima la trama, con un colpo di scena "ogni quattro o sei pagine". Poi i personaggi, in cui immedesimarsi. Infine la scrittura, limpida "come una lastra di vetro". E, soprattutto, nessun passo falso. La politica […] non entra mai in pagina. Per evitare errori che rendano fragile l’impalcatura delle sue storie si affida a degli esperti: storici, poliziotti, ex spie. Lo aiutano a rendere credibile il contesto. Ma ovviamente questo non è sufficiente. […] "Il primo errore, quello più grave, è dare per scontato che i lettori siano interessati a ciò che si è immaginato. Uno scrittore dovrebbe riuscire a farli interessare, spingendoli a identificarsi con i personaggi". Nel farlo, deve porre un limite alla fantasia? "Ovviamente. Il mondo immaginario deve essere così credibile da permettere l’immedesimazione: il lettore deve facilmente credere di vivere in quel mondo. Ci possono essere elfi, astronavi intergalattiche e supereroi, ma in qualche modo il lettore deve credere alla loro esistenza"» (Stefania Parmeggiani). «“Io lavoro così. Per circa un anno faccio ricerche e mi documento, spesso viaggiando. Nel secondo anno butto giù la prima stesura del libro, e questa è la parte più difficile, mentre nel terzo metto a punto la versione definitiva. E questa è la parte che preferisco, perché vedo avvicinarsi la mèta”. Come si svolge la sua giornata lavorativa? “Mi sveglio presto e alle sette mi metto al computer. Dopo pranzo continuo a scrivere fino alle 17, poi per circa un’ora rispondo alle e-mail, e da qualche anno ho dovuto introdurre nella mia routine una sessione di ginnastica per tenermi in forma. Il sabato e la domenica non lavoro. La sera, se non esco a cena, guardo la tv con mia moglie Barbara”. Cosa guarda in televisione? “Principalmente serie tv, come Il trono di spade”» (Genghini). «Dove scrive? “Dappertutto, anche in aereo. Se posso, preferisco la mia biblioteca. Mi piace essere circondato dai libri e dai ritratti degli scrittori che ho: George Eliot, Philip Roth, Stephen King e un busto di Honoré de Balzac. Non ho superstizioni o strani rituali. Non è essenziale neanche il silenzio. Dopotutto, ho cominciato come giornalista”» (De Carolis). «Ho anche un cavalletto nella mia biblioteca, uno di quei cavalletti da artisti con una tela bianca. Nelle prime fasi del processo creativo di un romanzo, ritaglio da libri e riviste foto di persone che somigliano ai miei personaggi. Le attacco sulla tela bianca, in modo da averli sempre davanti agli occhi e ricordarmi delle persone di cui sto scrivendo. Lo trovo molto utile, specialmente all’inizio: guardare le loro foto mi aiuta a tenere a mente le caratteristiche che stanno alla base di ogni personaggio e l’impatto che ciascuno di loro ha sul mondo che li circonda. Bello, brutto, sexy, calvo, grasso, magro…» (a Neal Thompson). «Quando finisco un libro mi impongo due settimane di pausa, ma dopo dieci giorni mi annoio» • «La storia deve convincermi completamente. […] Quante ne ho buttate! Posso lavorarci anche per un anno intero e poi farle finire nel cestino, come è accaduto una volta, molto tempo fa. Era una storia che avevo intitolato Country Risk. Il “rischio-Paese” è l’espressione con cui banchieri e uomini della finanza chiamano il grado di possibilità di bancarotta di una nazione. L’avevo ambientata negli anni ’80: c’erano le spie sovietiche del Kgb che prendevano il controllo di un istituto di credito di Londra con il progetto di usarlo per provocare il collasso del capitalismo. […] All’editore piaceva, e pure al mio agente piaceva. Ma dopo un anno che ci lavoravo mi arrivò la lettera da una lettrice che aveva appena finito La cruna dell’ago. Scriveva: “È stato così eccitante, l’ho letto tutto in bilico sulla punta della sedia”. Ho pensato: le accadrebbe la stessa cosa con questo? La risposta era “no”. Come sarebbe stato possibile? Persone che facevano riunioni, che telefonavano, e se ne stavano quasi sempre nei loro uffici. Ho pensato: non funzionerà. E l’ho gettato via» (a Edoardo Vigna) • «Leggo in continuazione. […] Molto spesso ho almeno 5 nuovi libri sul mio tavolo, ma li lascio da parte per rileggere un romanzo di Dickens o Jane Austen. […] La letteratura di quel periodo – romanzi vittoriani con una trama strutturata, personaggi distintivi le cui scelte cambiano il corso della storia – è il tipo di letteratura che faccio anch’io. È una tradizione del diciannovesimo secolo, e io scrivo seguendo questa tradizione, come fanno d’altronde molti degli autori di best seller» • «Io mi sono reinventato completamente: ero uno scrittore di thriller, ora pubblico lunghi romanzi storici. Ogni artista deve farlo: altrimenti ripeti». «Oggi ho più fiducia nei miei mezzi, questo è vero. Dopo il successo di La cruna dell’ago, ero terrorizzato di fare cilecca con il secondo romanzo, mentre adesso sento che c è un metodo sperimentato, che mi sorregge. E, forse, anche se non spetta a me dirlo, ho imparato a scrivere meglio. Ma sono diventato meno coraggioso. La trama di La cruna dell’ago era poco convenzionale: il protagonista compare solo a metà della storia, il suo nemico, il cattivo per così dire, è una figura contraddittoria, che affascina quasi quanto e più del buono. Intendo dire che, quando sei giovane e sconosciuto, è più facile violare le regole, anche perché tu stesso non le conosci. Sei meno condizionato, e dunque più libero. Oggi so benissimo cosa serve per confezionare un bestseller, conosco le regole a memoria, e le seguo disciplinatamente. […] La mia ambizione è sempre stata quella di scrivere romanzi popolari, di intrattenere il pubblico: con uno stile chiaro, comprensibile da tutti, con storie che avvincono, commuovono, spaventano, senza confondere. È quello che so fare. Poi, per il mio piacere personale di lettore, adoro Jane Austen e Proust, ma riconoscendo che sono un’altra cosa rispetto a ciò che faccio io. Sebbene, nonostante tutto, siamo anche uguali. In fin dei conti, abbiamo entrambi, io e Proust, lo stesso compito: creare un mondo immaginario e cercare di trascinarci dentro il lettore». «Scrivere la mantiene giovane? “Quando ho finito l’università mi furono offerti tre lavori. Giornalismo, marketing e informatica. Se avessi scelto il terzo, forse oggi sarei Bill Gates…”. Ma è Ken Follett. “E ne sono felice. Per me smettere di scrivere sarebbe come finire in Purgatorio”. L’agente Alan Zuckerman le disse una volta che il suo problema era che non era un’anima torturata. “Ci sono scrittori che scrivono perché dentro hanno il dolore, come Pat Conroy, che è chiaramente un uomo che da giovane ha sofferto. Tutti i suoi libri, in fondo, hanno la stessa chiave, trattano lo stesso tema: le prepotenze del padre e dei cadetti di West Point. Ho smesso di leggerlo. Lo trovo ripetitivo. Io non sono così. Non sono Amleto. Forse sono Falstaff, ma sicuramente non sono Amleto”» (De Carolis).