3 giugno 2019
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Biografia di Benedetto «Nitto» Santapaola
Benedetto «Nitto» Santapaola, nato a Catania il 4 giugno 1938 (81 anni). Mafioso. Pluriergastolano (condannato in via definitiva, tra l’altro, per le stragi di Capaci e di via D’Amelio e l’omicidio di Giuseppe Fava). Arrestato il 18 maggio 1993 e tuttora detenuto in regime di 41 bis. «Un prete mancato e un mafioso riuscito. […] A Catania raccontano che una volta fu eletto come il bambino più "buono" della città: allora faceva il chierichetto dai Salesiani. Nitto doveva entrare in seminario, poi evidentemente cambiò idea, e dicono che abbia ordinato la morte di almeno 500 uomini» (Attilio Bolzoni). «Sono stato sempre un lavoratore e un padre di famiglia. Dopo il 1982 cercavano un mito, e hanno trovato Santapaola» • «Nato in una famiglia povera in uno dei quartieri più degradati del centro, quel San Cristoforo considerato la culla della malavita catanese» (Turi Caggegi). «Le case basse di pietra lavica e le prime teste di cavallo sui banconi delle macellerie segnano il confine con Catania. Poi comincia San Cristoforo. […] Popolato da cinquantamila siciliani con le loro leggi e le loro regole, una città nella città, dove è nato e dove ha regnato Benedetto Santapaola. […] Qui a San Cristoforo […] ci sono anche i vecchi che raccontano la storia di una famiglia di "saccari", raccoglitori di sacchi e di farina. È la storia di Vincenzo Santapaola, il padre del boss» (Attilio Bolzoni). «Catania […] fino al 1984 si era proclamata libera dal cancro mafioso, benché la “famiglia” fosse stata formata nel 1925. Ma da quel giorno è stato tutto un negare, tacere, dissimulare. Di modo che passa inosservata la cerimonia d’iniziazione in svolgimento, la fresca primavera del ’62, nella masseria di Nicolosi, a metà costa dell’Etna. I patriarchi hanno deciso di affiliare i giovani più promettenti: Francesco Ferrera, Natale Ercolano, Nino Calderone, Giuseppe Ferlito, Giuseppe Russo, i fratelli Benedetto (Nitto) e Salvatore Santapaola. Hanno più o meno la stessa età, sono cresciuti nel medesimo quartiere, San Cristoforo; da bambini hanno giocato assieme per strada, da ragazzi sono andati assieme al casino. Si conoscono e si spalleggiano, non vedono l’ora di entrare in società. […] I Ferrera, gli Ercolano, i Santapaola hanno per madri le tre sorelle D’Emanuele, figlie di un personaggio molto noto: Natale da Plaia. […] La cerimonia procede fino all’atto finale. I sette picciotti diventano mafiosi a tutti gli effetti. […] Ancora in quel 1962 avviene un fatterello di cronaca, che giustamente passa inosservato: il ventiquattrenne Santapaola esordisce nelle cronache giudiziarie con l’accusa di furto e di associazione a delinquere. Nitto proviene da una giovinezza di stenti, ha potuto studiare soltanto qualche anno grazie alla generosità dei salesiani, poi si è dovuto cercare un lavoro. Il banchetto di frutta e verdura nel più conosciuto mercato all’aperto serve a mascherare i primi passi dentro la cosca. La guida Pippo Calderone, il cui ascendente sale a livello regionale: Badalamenti e Bontate sono suoi amici ed estimatori» (Alfio Caruso). «Giovanissimo inizia a delinquere, specializzandosi nelle rapine. Nel frattempo coltiva l’hobby del calcio sino a diventare presidente di una società di calcio minore, gli “Ortofrutticoli”, per via di uno dei suoi primi mestieri, quello di venditore ambulante di generi di ortofrutta, poi di scarpe, di articoli per la cucina; infine, il salto nell’imprenditoria» (Natale Bruno). «Santapaola era stato denunciato per furto e associazione a delinquere già nel ’62, diffidato dalla questura nel ’68, addirittura inviato al soggiorno obbligato due anni dopo. Nel ’75 arriva un’altra denuncia, per contrabbando di sigarette» (Caggegi). Nel luglio 1976, secondo la testimonianza del collaboratore di giustizia ed ex mafioso Antonino «Nino» Calderone (uno dei sette picciotti iniziati quel giorno del 1962), Santapaola si rese responsabile di uno dei delitti più atroci: «Il boss fece uccidere quattro picciriddi, quattro adolescenti che aveva visto nascere e crescere tra i vicoli del suo regno. Quei ragazzini, un giorno, avevano avuto la maledettissima sfortuna di scippare la borsetta alla donna sbagliata. Era la madre di Santapaola. I picciriddi furono "prelevati" dalle loro case, caricati su due auto, trasportati lontano da Catania. Poi furono strangolati e sotterrati ai piedi di monte Formaggio, al centro della Sicilia» (Bolzoni). «Grazie a Pippo Ferrera gli affari della “famiglia” progrediscono, s’internazionalizzano, si estendono dal contrabbando agli stupefacenti. Santapaola viene promosso capodecina. Rispettoso e silenzioso, non lascia trasparire le proprie ambizioni, meno che mai i legami con i corleonesi, i quali interpretano al massimo livello la voglia di crescita dei proletari di Cosa nostra. Le attitudini diplomatiche proiettano Calderone [Pippo, fratello maggiore di Nino – ndr] al vertice della Commissione, ma è un generale senza esercito. La mezza centuria di mafiosi catanesi – le limitate fonti di reddito hanno sconsigliato di largheggiare negli arruolamenti – non può competere con gli oltre cinquemila del palermitano; per di più, Calderone controlla pochissimi dei suoi. Santapaola gli scava la fossa intorno. D’intesa con Riina ve lo cala dopo averlo esautorato con l’accusa di non saper tenere le briglie della “famiglia”. La scomparsa di Calderone rappresenta la definitiva consacrazione di Santapaola e una perdita importante per il fronte anticorleonese. Bontate e Inzerillo a Palermo non percepiscono di essere accerchiati. Santapaola si gode il successo. All’antica frequentazione con i fratelli Carmelo e Gino Costanzo ha aggiunto quella con un altro impresario edile, Gaetano Graci: nelle denunce di Pippo Fava diventeranno, assieme ai Rendo e a Finocchiaro, i Cavalieri dell’Apocalisse mafiosa. Santapaola li garantisce negli appalti e viene ricambiato con egual considerazione. La città ne fa uno dei figli prediletti. Il tenente colonnello dei carabinieri Morelli, piduista, lo trasforma nel principale confidente. Al matrimonio del figlio di Gino Costanzo fanno la fila per essere ritratti con Nitto il sindaco Coco, il presidente della Provincia Sciuto, il segretario comunale della Dc Di Stefano, l’onorevole del Psdi Lo Turco, il segretario provinciale della Dc Longo, persino il dirigente sanitario del carcere, Guarnera, oltre, naturalmente, ai padroni di casa. La sera in cui Nitto inaugura la concessionaria Renault intestata alla moglie, Carmela Minniti, il nastro è tagliato dal prefetto Abatelli e dal questore Conigliaro. […] Nitto, un artista delle relazioni pubbliche, abilissimo nel celare il proprio spessore criminale dietro una squisita affabilità, […] si giudica un gentiluomo, degno della stima e della considerazione altrui: non per niente i carabinieri pendono dalle sue labbra. […] Nitto è il più classico amico degli amici. Così lo devono classificare anche il questore e il prefetto, accettando di presenziare a quella cerimonia, che li segnerà in eterno. […] Tuttavia, il 13 agosto 1980 la copertura di Santapaola rischia di essere smantellata. Il giorno prima è stato ucciso, per le abituali vicende di appalti, il sindaco democristiano di Castelvetrano, Vito Lipari. Santapaola viene fermato in una strada provinciale del trapanese, su una macchina carica di armi, in compagnia di tre compari. Afferma di essere in zona per l’acquisto di una partita di cocomeri: sulla carta d’identità non sta scritto che è un venditore ambulante di prodotti ortofrutticoli? Vengono condotti in caserma. Prima di essere sottoposti al guanto di paraffina, Santapaola fa mettere a verbale che il 12 agosto sono stati tutti a sparare nella riserva Dragofosso del cavalier Graci: negli ambienti mafiosi Nitto è chiamato per l’appunto “il cacciatore”. Santapaola non si ferma alla citazione di un imprenditore conosciuto come Graci, ma fa i nomi di altri personaggi importanti, lascia intendere di avere rapporti altolocati. L’esame del guanto di paraffina dà esito positivo, ma i quattro vengono rilasciati. In seguito verrà appurato che erano andati a sollecitare un intervento di Mariano Agate, il potentissimo capofamiglia di Mazara del Vallo, in favore di Graci, un cui cantiere nella zona era stato preso di mira da una banda di estorsori. Santapaola è alleato con i cugini Ercolano contro gli altri cugini Ferrera, però ritrovano la compattezza per fronteggiare le bande cittadine capeggiate da Alfio Ferlito. I suoi ottimi agganci con le ghenghe catanesi di Milano e Torino lo inducono a sfidare il potere costituito di Cosa nostra. In palio il possesso di Catania, il cui tesoro è rappresentato dalle segreterie dei partiti di centro-sinistra, dagli appalti, dalle holding dei cavalieri del lavoro. Droga, estorsioni e riciclaggio sono un’appendice naturale. Ferlito prova a sorprendere Nitto. Il 6 giugno 1981 viene informato di una riunione a casa di un suo fratello alla Cerza, uno dei tanti quartieri edificati con i soldi sporchi e che allungano la città verso l’Etna. Il clan Ferlito si acquatta. Il cacciatore è divenuto la preda: viaggia però su una Fiat 132 blindata con radiotelefono e sirena. L’auto resiste ai pallettoni della lupara e dà tempo alla scorta di usare mitra e fucili a pompa: gli angeli custodi di Santapaola hanno armi più moderne ed efficienti: le procurano i Ferrera assieme alla droga. Per venti minuti gli abitanti dei palazzi sono rintronati dal fragore della battaglia. Rimangono sul terreno duemila bossoli di kalašnikov, tre bombe a mano inesplose. Restano feriti due guardaspalle di Nitto, ma Ferlito lamenta la perdita del suo killer migliore. […] Ferlito è consapevole di aver sprecato un’occasione irripetibile. Si rifugia a Milano, ma i rappresentanti delle “famiglie” palermitane gli fanno terra bruciata intorno. Una soffiata conduce i poliziotti in un garage della periferia: trovano un tir con una tonnellata di hashish. Risalgono facilmente a Ferlito. Il suo arresto scatena una faida sanguinaria a Catania. Cade il braccio destro di Santapaola, egli stesso evita per caso un assalto con bombe a mano e raffiche di kalašnikov: a terra rimangono sei morti e otto feriti. La vendetta è tremenda, dimostra la capacità d’intervento della cosca, le sue complicità eccellenti. Bustarelle e conoscenze consentono a Nitto di far trasferire Ferlito da un carcere siciliano all’altro cercando il momento migliore d’intervenire. Quando da Enna lo devono tradure a Trapani, i santapaoliani riescono a sapere data e tragitto. Al transito sulla circonvallazione palermitana una tempesta di fuoco si abbatte sul trasporto: oltre a Ferlito vengono uccisi i tre carabinieri di scorta e l’autista. Compare sulla scena il kalašnikov che meno di tre mesi dopo sarà utilizzato per assassinare il super prefetto Dalla Chiesa, la moglie, un agente [per la strage di via Carini, però, Santapaola, dopo un’iniziale condanna all’ergastolo, fu poi prosciolto – ndr]. Dopo quest’eclatante eccidio, che alza al massimo livello la sfida allo Stato, Catania è costretta a scoprire che il figlio prediletto risulta tra i ricercati. La latitanza, però, non ne pregiudica gli affari. Le mani di Santapaola si allungano sul casinò di Campione e su quelli di Sint Maarten. Non servono soltanto per guadagnare, ma anche per riciclare decine di miliardi. Padrone incontrastato della città, nonostante i colpi di coda dei sostenitori di Ferlito, Santapaola gode di protezioni d’alto rango: malgrado un paio di soffiate, i suoi rifugi rimangono inviolabili. V’incontra la moglie, i figli, i medici incaricati di curare i numerosi malanni, dal diabete a una rara forma di licantropia. Sotto la sua ala protettiva aumenta l’influenza degli Ercolano. Si stringono i rapporti con i potentati locali. Pure le rivelazioni di Nino Calderone, il fratello di Pippo, gli fanno il solletico. Alle prime denunce pubblicate dal periodico “I Siciliani” di Giuseppe Fava viene risposto con la brutale eliminazione del giornalista-scrittore. In molti provano a depistare le indagini, la città fatica a reagire, quasi devitalizzata dai cento morti all’anno. Nella finta normalità rientra, quindi, anche l’incendio che nel settembre 1989 devasta i magazzini Upim di piazza Università. Invece è cominciata l’offensiva del clan contro i due giganti della grande distribuzione, il gruppo Agnelli e il gruppo Berlusconi. Oltre alla Upim sono presi di mira i magazzini della Rinascente, della Standa e di altre consociate dei due imperi. La tattica intimidatoria, che comprende danneggiamenti, attentati esplosivi e boicottaggi, prosegue per tutto il ’90. Gli attentatori non inseguono il semplice “pizzo”: a loro interessa diventare fornitori della Rinascente e della Standa. Per la “famiglia” è il momento della massima diversificazione: i guadagni realizzati con la droga e con le estorsioni vengono investiti in attività commerciali. Santapaola e i sottostanti avviano allevamenti, aziende vinicole, caseifici, marchi di abbigliamento, imprese artigianali. Ciascuna di queste intraprese trova subito corsie preferenziali e ricche commesse. Alla forza dei soldi si accoppia l’impossibilità di opporsi a simili offerte. Dal mattino alla sera passano di mano intere vie, con tutto quello che ospitano: palazzi, negozi, botteghe. […] I due principali investimenti di Catania, il consorzio agroalimentare e l’ente Fiera, scatenano una corsa alle tangenti e all’aggiudicazione degli appalti da parte delle ditte amiche di Santapaola e degli altri boss. Un pacco di miliardi da spartire, una fetta dei quali destinata ai big della Dc e del Psi. […] Le indagini delle forze dell’ordine, le sentenze dei giudici dimostrano che il gruppo Agnelli e il gruppo Berlusconi hanno preferito non rivolgersi a polizia e carabinieri, ma ricercare un accordo diretto. La Rinascente alla fine paga, mentre la Standa oppone un netto rifiuto. Gli appalti dei Costanzo inducono Santapaola a spostarsi su Barcellona Pozzo di Gotto. Pure qui la presa si fa ferrea e si riverbera sugli attentati di Capaci e di via D’Amelio [per entrambi i quali, come già precisato, Santapaola fu poi condannato in via definitiva all’ergastolo – ndr]. Santapaola è ormai considerato uno dei vice più autorevoli di Riina, ma è sempre più insofferente della sua strategia. Si avvicina a Piddu Madonia, il capo della “famiglia” di Caltanissetta, ed entrambi aprono a Provenzano. Il rimescolamento delle carte produce scossoni anche a Catania. Le bande d’irregolari tentano d’inserirsi nelle beghe, che continuano a opporre Santapaola e gli Ercolano ai cugini Ferrera e a un gruppo famigliare, i Mazzei, affiliati alla mafia per volere di Bagarella. Il clan reagisce con lo sterminio di quanti non si piegano. […] Santapaola è sempre più addentro al gioco grande, Riina ne decreta l’eliminazione, ma lui è ben protetto. La tranquilla permanenza a Barcellona viene, però, scossa dalla curiosità di un bravo giornalista, Beppe Alfano. Il suo omicidio nel gennaio ’93 è ancora un mezzo rebus, tuttavia indizi pesanti tirano in ballo anche il boss catanese, che nei giorni successivi abbandona la casa sicura, situata a pochi metri da quella di Alfano. Si trasferisce in un casolare sul confine tra Ragusa e Catania. Gli inquirenti lo individuano grazie alle indicazioni di Claudio Severino Samperi, un picciotto addentro ai segreti della “famiglia”. Ma dietro le quinte è probabile che altri, da non bruciare, abbiano collaborato. La sua cattura nel maggio ’93 è opera dello Sco (Servizio centrale operativo). Per evitare malintesi o fughe di notizie, i poliziotti catanesi sono stati tenuti all’oscuro dell’operazione. Santapaola è arrestato insieme alla moglie, la signora si offre di fare il caffè per tutti. Nitto commenta: “Tutte le cose belle prima o poi finiscono”. Il potere della cosca rimane comunque intatto. Nitto scrive addirittura una lettera aperta nella quale rivendica il presunto splendore di Catania quando era lui a “governarla”. E il titolare del famoso ristorante sul mare, abituale ritrovo dei mammasantissima e dei loro accolti, lo conferma con una intervista dai toni accorati. Eppure Santapaola, benché seppellito dagli ergastoli, continua a esercitare una notevole influenza. Le centinaia di arresti – restano coinvolti anche i figli Francesco ed Enzo – non scardinano il clan. Nel giro dei traffici risalta pure la festa di sant’Agata, la patrona della città: grazie a una girandola di complicità laiche e religiose, viene gestita la ragnatela di affari e concessioni, viene soprattutto stabilito davanti a quali palazzi la statua della santa si deve fermare. E sono sempre indirizzi “pesanti”, di amici e di amici degli amici. Insomma, Catania rimane la città di Nitto. L’unico dolore lo procura la feroce esecuzione della moglie, uccisa per ritorsione da un collaboratore di giustizia: imputava a Santapaola di non aver fermato l’assassinio di padre e figlio» (Caruso). Pochi mesi dopo l’assassino della moglie, Santapaola dal carcere dichiarò di averne perdonato i responsabili, probabilmente allo scopo di evitare ulteriori ritorsioni anche sui propri figli. «Ha trascorso in carcere oltre vent’anni, e in tutto questo tempo mai un cedimento, un passo indietro, malgrado la malattia, il diabete, lo accompagni dalla sua giovane età, e tanti disturbi clinici per una rara forma di licantropia che gli è valsa il soprannome di “Licantropo”» (Bruno) • Tre figli, Vincenzo, Cosima e Francesco, nati dal matrimonio con Carmela «Melina» Minniti • «Qualcuno non si ricorda neanche se è vivo o morto. E i suoi sembrano scomparsi, inghiottiti dalle retate poliziesche. Ma […] Benedetto Santapaola c’è, c’è ancora. E ci sono pure i suoi, che sono ricchi, i più ricchi di tutti. Nascosta, un po’ come lo è stata la ’ndrangheta quando a Palermo uccidevano Falcone e Borsellino, la mafia di Catania è sempre lì. Geograficamente laterale, mafiosamente capitale. Chiunque vorrà rifondare la Cupola dopo l’uscita di scena di Totò Riina dovrà fare i conti con loro, i "catanesi". È la razza dei Santapaola che più di altre incarna un "modello" vincente, l’alternativa alla politica dissennata di Corleone. Mentre quelli sparavano e preparavano bombe, "Nitto" e la sua gente facevano soldi a palate. Lo chiameranno forse ancora "il Cacciatore" o magari anche "il Licantropo", ma il vecchio del quartiere San Cristoforo ha costruito un impero dove affari illegali e affari legali si confondono. È un futuro che viene da lontano. Considerati da sempre i cugini un po’ così, snobbati dall’aristocrazia criminale della Sicilia occidentale, oggi sono più avanti di tutti e si sono già guadagnati una "rispettabilità" molto americana. È la mafia che per prima si è infilata il vestito buono e che ha messo distanza con le "piazze di spaccio" e le "mesate" del racket, che lascia alle sue articolazioni più basse il lavoro sporco infiltrandosi dappertutto nelle attività pulite. Nella loro Catania. A Messina. E anche fuori dai confini nazionali. Soprattutto a Malta, nuova frontiera del riciclaggio nel Mediterraneo. […] Ma chi sono questi sconosciuti boss che si presentano oggi come la fazione più avanzata ed evoluta di Cosa nostra? Sono sempre gli stessi, schermati da parenti vicini e lontani – come i Romeo di Messina e i più noti Ercolano di Catania – o da altri personaggi che magari non si chiamano Santapaola ma "sono" Santapaola. Il vecchio Nitto è rinchiuso ad Opera, il figlio più grande Vincenzo detto "u picciriddu" è pure lui in stato di cattività, il secondogenito Francesco è molto operativo e […] seguendo lui i carabinieri del Ros hanno scoperto una "cellula" dei Santapaola sullo Stretto. Era praticamente inabissata: tutti in doppiopetto, tutti incensurati, "pettinati e profumati", tutti con interessi nella ristorazione e nelle scommesse, con amici fra funzionari del Comune e nei salotti, legami di "fratellanza". In perfetto Santapaola style. […] È la specificità del crimine a Catania, già conosciuto dal generale Carlo Alberto dalla Chiesa nei suoi cento giorni siciliani e dal giornalista Pippo Fava. Promiscuità. Cavalieri del lavoro ed editori, la borghesia delle professioni e il malaffare. Una mafia molto "governativa", una diversità e una modernità che l’ha portata a entrare in contatto con i "turchi" per approvvigionarsi di oppio quando i boss di Palermo si barcamenavano ancora con i contrabbandieri napoletani per le casse di "bionde", che aveva i canali giusti per procurarsi armi come quei kalashinikov che poi sono serviti a uccidere i capi storici della Cosa nostra dell’altra Sicilia. Ieri come oggi la mafia di Catania è più aperta, capace di "dialogare" anche con tutte le cosche che ha intorno in città, i "carcagnusi", i "cursoti", i "cavadduzzu", stelle mafiose che brillano di luce propria. Meno ortodossa e più flessibile, la mafia catanese è quella più adeguata a lanciare la sfida per avere una Cosa nostra davvero nuova ed efficiente dopo lo sfascio voluto da Totò Riina. Il nuovo mafioso forse è proprio nato qui, ai piedi dell’Etna» (Bolzoni).