Corriere della Sera, 3 giugno 2019
Recensione del libro «Viaggio sentimentale» di Viktor Šklovskij
Negli anni successivi alla rivoluzione d’Ottobre, il fastoso e forse non elegantissimo palazzo del commerciante Eliseev era diventato, una volta espropriato, la sede della Casa delle Arti: una specie di grande condominio in cui, arrangiandosi alla meno peggio, alloggiavano gli scrittori, i poeti, gli storici della letteratura, gli artisti. «Stanze, stanze, e stanze» in abbandono, dalle cui finestre ci si affacciava sulla prospettiva Nevskij o si potevano scorgere le cupole della cattedrale di Kazan, nelle quali l’attività intellettuale era fervente. C’era chi scriveva novelle e chi romanzi; chi scriveva la biografia di Gor’kij e chi quella di Tolstoj; chi leggeva i Padri della Chiesa e chi, come Mandel’stam – la testa alta un po’ rovesciata all’indietro – se ne andava in giro per i corridoio componendo e recitando poesie davanti a tutti; chi, come Boris Ejchenbaum scriveva saggi Sulla tragedia e sul tragico e chi, come Roman Jakobson, pensava la Teoria del linguaggio.
Qui, in questa Casa, nella quale – vestiti nei modi più improbabili: pezze, pellicce, scarpe di legno, pantaloni a quadrettini – i maggiori intellettuali russi combattevano il gelo bruciando i libri nelle stufe; soffrivano, come tutti, la fame (principalmente la mancanza di zucchero: «Se non siete vissuti in Russia tra il 1917 e il 1921, non potete figurarvi la querula insistenza con cui il corpo e il cervello possono esigere lo zucchero. Lo implorano come se si trattasse di una donna…»); aprivano la porta a spauriti artisti provenienti dalla Siberia; bevevano il tè fatto con la corteccia degli alberi e giocavano a carte, era approdato e viveva – dopo anni turbolenti trascorsi in continuo movimento – Viktor Šklovskij: figlio del professore di matematica ebreo Boris Šklovskij, padre del formalismo russo, autore di saggi sul Tristram Shandy e sul Don Chisciotte, di moltissimi altri libri, nonché del Viaggio sentimentale. Memorie 1917-1922, che oggi ripubblica Adelphi.
In questo breve e convulso periodo di tempo, Šklovskij è stato al fronte nel 1914, dove ha avuto la carica di istruttore e comandante di un reparto blindato. Ha visto e partecipato in qualità di socialista rivoluzionario alla rivoluzione di Febbraio e ha conosciuto Kerenskij. Come la maggioranza degli intellettuali della Casa delle Arti, per un periodo non fugace ha creduto nella rivoluzione d’Ottobre e poi a Saratov ha congiurato contro i bolscevichi. In Persia, dove si è fatto inviare per sfuggire al senso di immobilità e di paralisi del caos post-rivoluzionario, fatto di movimenti di truppe incomprensibili, di decisioni astratte, di speranze e di attese infinite, ha guidato un reparto dell’Armata rossa; ha constatato lo sfacelo dell’esercito in lotta con gli austriaci e i tedeschi (era l’esercito, ed essendo esercito, doveva combattere, punto e basta); e soprattutto ha conosciuto la complessa realtà di un intrigo di popoli in odio feroce gli uni contro gli altri (persiani, turchi, assiri nestoriani, curdi, armeni, ebrei), dediti ai pogrom più violenti e disumani che si possano concepire.
In Ucraina – dove gli ucraini ammazzavano i bolscevichi in quanto russi e i russi in quanto bolscevichi – ha combattuto e poi guidato la ritirata dell’esercito in una Catabasi folle, con treni presi d’assalto, offensive dei Bianchi, teste saltate, fucilazioni e stupri (per non farsi stuprare dai russi le donne curde si cospargevano il corpo di escrementi, ma i soldati le lavavano e procedevano lo stesso); è stato ferito e negli ospedali ha visto l’abominio.
È tornato a Mosca e Pietrogrado: nere, spettrali, contratte nel ghiaccio. È intervenuto nelle riunioni dei soviet e ha conosciuto i commissari: esseri incerti, incapaci, ex medici, ex insegnanti, inermi di fronte a decisioni venute da chissà dove, improntate alla ferrea convinzione che si potesse organizzare la vita in quella anarchia spaventosa dell’esistere, stabilendo dall’alto a che ora dovesse sorgere il sole. Ha ascoltato, nel soviet della sezione militare, un discorso di Lenin appena arrivato dalla Finlandia («Lenin ha pronunciato il suo discorso con impeto elementare. Spiegando quanto fosse facile avviare una rivoluzione sociale, schiantava i dubbi innanzi a sé come un cinghiale abbatte i giunchi…»). Si è dipinto i capelli di viola per non farsi riconoscere e sfuggire agli interrogatori della Ceka sulla sua partecipazione alla congiura di Saratov. Ha vissuto, come tutti, la paura e il terrore: quella «buia corrente d’aria» che si infilava nelle strade deserte, nei palazzi abbandonati dei borghesi e dei nobili scappati in campagna o a Kiev. Ha conosciuto Gor’kij, uomo vigoroso, bolscevico autentico, e tuttavia «salvatore» di molti scrittori sistemati alla Casa delle Arti, a lavorare per qualche giornale o qualche rivista, e Aleksandr Blok, il poeta disperato morto di dolore. Ha perso prima un fratello (fucilato dai soldati del suo stesso reggimento perché, per amando la rivoluzione, non credeva nei bolscevichi), e poi un secondo fratello, Evgenij, 35 anni, medico (finito a bastonate lungo i binari, dai Rossi o forse dai Bianchi, perché comandando un vagone pieno di feriti, si era opposto alla loro uccisione).
Alla Casa delle Arti ha fatto amicizia con un comunista intransigente, impegnato a studiare le affinità fra la lingua malese e quella giapponese; ha sfidato un uomo a duello; ha iniziato a scrivere il saggio L’intreccio come fenomeno di stile e partecipato alle discussioni dell’Opojaz, la Società per lo studio del linguaggio poetico…
Tutto questo ha fatto Viktor Šklovskij, in quel tempo convulso che a volte sembrava immobile, quando una sera, la sera del 4 marzo 1922, tornando alla casa con uno slittino carico di legna vede una luce nella sua stanza, capisce che è una perquisizione, capisce che la sua permanenza in Russia è finita e fugge in Finlandia.
Qui scrive il Viaggio sentimentale. Il libro che, nella sua prefazione, con una intuizione come sempre illuminante, Serena Vitale definisce una «autobiografia di un intellettuale russo inquieto, insofferente, in ogni senso nemico dell’immobilismo». Il «movimento» è, infatti, la vera anima di questo memoir. Riflessa in uno stile fatto di frasi leggere, agili, quasi ariose «nonostante tutto», trascina la pagina come se la scrittura volesse sforzarsi di superare le Cose e il Tempo: «Scrivo – confessa Šklovskij – ma non riesco a prendere il largo, a perdermi come un lupo nella foresta dei pensieri… Il pensiero corre, corre, ma rasoterra, non riesce in alcun modo a spiccare il volo».